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230 parte prima - capitolo xxxiv


A quella sua proposizione, che sembrava a’ mal pratici della umanitá una torre inespugnabile, opposi quel sonetto bernesco:

     Dottor, se incontra qualche tua commedia,
non dir per questo ella sia buona mai;
perché se incontra una del Chiari assai,
tu di’ ch’ella è cattiva, e ch’ella tedia;
     e se a qualche altra il popol non t’assedia,
stolto e ignorante non lo chiamerai;
o s’una al Chiari casca non dirai:
— Ciò fu perché ella è una fola, un’inedia. —
     O tu vuoi che il concorso sia buon segno,
o l’abbandono un tristo segno sia,
o il popolo a decider non sia degno.
     Perdio, Dottor, di qua non fuggi via.
Rispondi e aguzza quanto vuoi l’ingegno:
o tu, o il Chiari, o il popolo è in pazzia.
                    Se astratto e in balordia
rispondi: — È sempre buon segno il concorso, —
viva il Goldoni, il Chiari, il Sacchi e l’orso.

Ma forse perché cento consimili mie composizioni d’argomenti scherzevolmente ed efficacemente trattati, con le quali fui invero un martirio a quel buon uomo, erano pur chiamate tuttavia con disprezzo da lui e da’ suoi partigiani eco della di lui voce, frivole e non curabili maldicenze uscite dall’animo d’un uomo torbido, invidioso e cattivo, e perché egli citava sempre ostinatamente il concorso popolare per autenticitá del merito delle sue teatrali produzioni, espressi un giorno, senza rimordimento del mio cuore, che il concorso in un teatro non decideva che le opere sceniche sue fossero buone, e che io m’impegnava di cagionare maggior concorso delle sue orditure colla fiaba dell’Amore alle tre melananze, racconto delle nonne a’ lor nipotini, ridotta a scenica rappresentazione.

Delle risa incredule e beffeggiatrici accesero il mio puntiglio e mi fecero accingere a quel cimento bizzarro.

Composto e letto da me il mio strano apparecchio a’ nostri dotti accademici granelleschi, benché le loro risa sulla lettura