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parte seconda - capitolo xx 359

spettatori a impegnar l’animo come se venisse rappresentata loro una veritá, è necessaria tutta la malía dell’arte rettorica e della eloquenza, il che sforza lo scrittore a una prolissitá pericolosa in un teatro. A questo pericolo era soggetto il mio dramma Le droghe d’amore.

Quel dramma era diviso in tre atti, ed era giunto a dialogarlo sino ad una porzione dell’atto terzo.

Mosso io dalla curiositá, tanto per intrattenere la brigatella che mi favoriva la sera quanto per rilevare reffetto che quell’opera faceva sugli animi, proposi una sera la lettura, e fu gratissima la mia proposizione.

Gli ascoltatori furono: la Ricci, il mio nipote Francesco, figlio di mio fratello Gasparo, il dottore Comparetti e il signor Michele Molinari.

Si mostrarono tutti presi dall’interesse e per il frizzo satirico sul costume universale e per i dialoghi de’ caratteri da me dipinti.

Dissi le ragioni della mia disuasione di dare al pubblico quell’opera e la mia costante risoluzione di porla tra le cose dimenticate. Proruppero ne’ stimoli perch’io la terminassi e la dessi al teatro. Sopra tutti la Ricci non cessava mai di persuadermi e di stimolarmi e pregarmi perch’io conducessi a fine quell’opera a cui non mancava molto. Niente mi scosse dalla mia determinata volontá di lasciarla tra i parecchi miei scartafacci disutili.

Dalla puritá di questo principio, ch’ebbe i testimoni accennati, si vedrá i gradini per i quali una composizione innocente passò, contro ogni mia aspettazione, ad essere considerata una satira particolare.

Alcuni giorni dopo la detta lettura, una sera della fastidiosa lunga mia convalescenza, la Ricci ch’era da me venuta uscí improvvisamente a chiedermi s’io conoscessi il signor Pietro Antonio Gratarol, secretario del veneto senato. Le risposi di non conoscerlo, e dissi una veritá. Aggiunsi di conoscerlo di veduta tuttavia, additatomi nella piazza da chi lo conosceva, e che all’aria forestiera, all’andatura e a’ suoi abbigliamenti, non