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CAPITOLO XI

Abilitá comica, giuochi, imprudenze, pericoli,

riflessioni sempre frivole.

In un teatro della corte si recitavano tutto il carnovale tragedie, drammi e commedie all’improvviso da’ dilettanti di comica, per divertire il provveditore generale, gli altri patrizi rappresentanti, l’uffizialitá e la cittá.

La compagnia comica, come suol essere per lo piú ne’ teatri non venali, era composta tutta d’uomini, e de’ maschi giovani colle vesti muliebri supplivano alle parti delle femmine. Io m’era scelto di rappresentare la parte della servetta.

Bilanciando il genio de’ miei ascoltatori e la nazione a cui doveva presentarmi, inventai un genere di servetta non piú veduta. Mi feci vestire da ragazza serva dalmatina. I miei capelli erano divisi, intrecciati con delle fettuccie di zendado color di rosa. Le mie vesti, i miei abbigliamenti, erano quelle e quelli della piú galante serva della cittá di Sebenico.

Lasciai da un canto la favella toscana, che usano le servette de’ nostri teatri d’Italia, e perché aveva appresa la favella illirica soffribilmente, m’apparecchiai ad esprimere i miei sentimenti ne’ dialoghi e ne’ soliloqui improvvisi col dialetto veneziano alterato e dalla pronunzia e da molti vocaboli illirici italianizzati, a tal modo che il mio linguaggio era un gergone faceto.

Sono uscito a far la mia parte concertata con un loquacissimo coraggio, e quella nuova specie di servetta inaspettata, intesa da que’ nazionali non meno che dagl’italiani, sorprese, fu accolta con giubilo da’ miei spettatori, e vinse gli animi di tutti generalmente.

I miei scorci muliebri dalmatini; le mie malizie in sugli aneddoti noti de’ miei compagni e della cittá, esposte con arti decenti e con delicatezza; i miei rimproveri; la mia ostentata