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CAPITOLO XXVI

Ritorno della Ricci a Venezia. Sua metamorfosi.

Mie osservazioni e miei riflessi morali.

Ritornata a Venezia la compagnia del Sacchi nell’autunno di quell’anno, non mancai, pregato, di comporre il solito prologo in versi, da recitarsi dalla prima attrice Ricci al pubblico all’apritura del teatro.

Quantunque io fossi ben alieno dal visitare la Ricci alla di lei casa, era anche alieno dall’usare con lei delle inurbanitá, e siccome ero solito a passare la maggior parte delle sere nei stanzini del palco scenario, credei di non dover fare la novitá di astenermi, per non dar adito a nuovi discorsi, a nuovi interpretazioni, a nuovi giudizi e a nuove mormorazioni pettegole, e massime perché non aveva cosa che mi dovesse sforzare ad allontanarmi dagli altri comici miei protetti.

Vedeva la Ricci ne’ stanzini medesimi e trattava con lei con la civiltá e urbanitá usata dall’uomo ben nato, ma come si tratta una valente attrice soltanto.

Scorgeva ch’ella aveva fitto nel cervello ancora il puntiglioso verme di volermi indurre a visitarla, e scorgeva ch’ella fremeva della mia indifferente civiltá. Intuonava quando ben le pareva che, voless’io o non volessi, ero il di lei compare. Io fingeva o di non intenderla, o tentava di rivolgere il discorso, o passava chetamente ad altro stanzino dov’ella non v’era.

Questo mio contegno di cautela appariva a lei una noncuranza offensiva la sua donnesca ambizione, irritava quell’amor proprio tanto raccomandatole da madama Rasetti di Torino.

Sperando d’offendermi e di mortificarmi passava ella ad un frascheggiare, mossa dall’inganno della sua baldanza, considerando un vanto ciò ch’era un avvilimento. Esagerava sopra ai