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82 quaderno i (xvi)


cioè in quella più viva e più aderente alla realtà immediata. Così la lingua è sempre un po’ fossilizzata e paludata e quando ❘61 bis vuol essere famigliare, si frange in tanti riflessi dialettali. Oltre il tono del discorso (il cursus del periodo) che caratterizza le regioni, c’è anche il lessico, la morfologia e specialmente la sintassi. Il Manzoni «sciacquò» in Arno il suo tesoro lessicale, meno la morfologia, e quasi nulla la sintassi, che è più connaturata allo stile e quindi alla coltura personale artistica. Anche in Francia ciò si verifica tra Parigi e la Provenza, ma in misura minore; in un confronto tra A. Daudet e Zola è stato trovato che Daudet non conosce quasi più il passato remoto etimologico, sostituito dall’imperfetto, ciò che non si verifica in Zola che in misura minima.

Il Bellonci scrive: «Sino al cinquecento le forme linguistiche scendono dall’alto, dal seicento in poi salgono dal basso». Sproposito madornale, per superficialità. Proprio fino al 500 Firenze esercita l’egemonia culturale, perché esercita un’egemonia economica (papa Bonifacio VIII diceva che i fiorentini erano il quinto elemento della terra) e c’è uno sviluppo dal basso, dal popolo alle persone colte. Dopo la decadenza di Firenze, l’italiano è la lingua di una casta chiusa, senza contatto con una parlata storica. Non è questa forse la quistione posta dal Manzoni, di ritornare all’egemonia fiorentina e ribattuta dall’Ascoli che, storicista, non crede alle egemonie linguistiche per decreto legge, senza la struttura economico-culturale? La domanda del Bellonci: «Negherebbe forse, il Crémieux, che esista (che sia esistita, vorrà dire) una lingua greca perché vi hanno da essa varietà doriche, joniche, eoliche? » è veramente comica e mostra come egli non abbia capito il Crémieux.

Cfr. Quaderno 23 (vi), pp. 57-58.


§ ⟨74⟩ Stracittà e strapaese. Elementi presi dalla «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928. Di Papini: «La città non crea, ma consuma. Com’è l’emporio dove affluiscono i beni strappati ai campi e alle miniere, così vi accorrono le anime più fresche delle province e le idee dei grandi solitari. La città è come un rogo che illumina perché brucia ciò che fu creato lontano da lei e talvolta contro di lei. Tutte le città sono sterili. Vi nascono in proporzione pochi figlioli e quasi mai di genio. Nelle città si gode, ma non si crea, si ama ma non si genera, si consuma ma non si produce»*. Tutto l’altro è ancor più settecentesco.

Nello stesso numero della «Fiera Letteraria» si trovano questi altri accenni: «Il nostro arrosto strapaesano si presenta con questi caratteri: avversione decisa a tutte quelle forme di civiltà che non si confacciano alla nostra o che guastino, non essendo digeribili, le doti classiche degli italiani; poi: tutela del senso universale del paese, che è, per dirla alla spiccia, il rapporto naturale e immanente fra l’individuo e la sua terra; infine, esaltazione delle caratteristiche nostrane, in ogni campo e attività della vita, e cioè: fondamento cattolico, senso