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106 il cuore malato

era una cosa misera, umiliante e vana. Vana sopratutto e impossibile. La sua partenza che egli annunziava con quel tono di rammarico leggero e di addio sentimentale, era una fuga ed ella lo comprendeva. Perciò tornava inutile insistere, pregare il fuggitivo d’una sosta, mostrargli il suo dolore spasimante: egli le appariva oramai un nemico, e come nemico bisognava trattarlo sebbene dentro di sè tutta l’anima urlasse e spasimasse. Ma anche l’inimicizia era un sentimento troppo grave e troppo fiero per rispondere a quel suo saluto così leggero e tranquillo, bisognava fingere l’indifferenza e la calma, bisognava già simulare un principio d’oblio. Ed ella, meditando a lungo, con fatica estrema, tracciò alcune righe di telegramma: «Fate bene a partire. Lo zio Eusebio di Roccavarna occupa tutto il mio tempo e tutto il mio cuore. Portatemi un idoletto indiano. Buon viaggio e addio».

Quindi si vestì e scese a pranzo consegnando il telegramma a un domestico. Aveva indossato un abito scuro a trine antiche che doveva piacere a don Eusebio e sedette alla destra del vecchio, il quale già adagiato in un’ampia poltrona si guardava intorno col suo lungo viso di misantropo corrucciato. Ella sentiva che gli doveva parlare con dolcezza e quasi con umiltà, attrarre a sè la sua benevolenza ritrosa, sorridergli con quella legge-