Pagina:Guglielminetti - La porta della gioia, Milano, Vitagliano, 1920.djvu/28

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amalia guglielminetti

di fiale di Murano dalle tonalità calde, spiccava con sanguigna violenza sulla piccola scrivania d’ebano e di madreperla un gran mazzo di rose rosse. Ma una lettera dalla busta molto larga e dalla scrittura molto alta non gli diede il tempo di osservare le rose. Insinuò il tagliacarte nella ripiegatura, l’aperse e lesse: — «Le ho raccolte io stessa sotto la pioggerella notturna. Vi recano la chiave medioevale della vecchia casa. Domani sera, a mezzanotte, mi precederete nella sala delle armi. Sarò come una fanciulla sperduta che cerchi asilo fra le vostre braccia salde. Mi bacerete a lungo perchè avrò molta paura. A domani. Maria».

Intorno agli steli spinosi era avvolto un grosso cordone d’argento. Lo riconobbe: era quello che le cingeva i fianchi, sull’abito di velo cenerino, la sera stessa: e da esso pendeva una grossa chiave d’antica forma, la chiave della villa saracena.

E Lucio D’Almea staccò con delicatezza dalle rose e resse sulla palma contemplandolo con un sorriso di tenerezza, accarezzandolo come una ciocca di capelli, baciandolo come una reliquia, quel grossolano ferro arrugginito che gli avrebbe aperto la porta della gioia.

Allo svegliarsi trovò sulle coperte il volume di diritto canonico che gli aveva recato il sonno, e la lettera di Maria Farnese che più volte glie

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