Pagina:Guglielminetti - La porta della gioia, Milano, Vitagliano, 1920.djvu/67

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l’uncino

delle amiche ostentando quelle cose preziose che davano alla sua grazia tutta moderna una strana gravità d’idolo, la quale era insieme una stonatura stridente ed un fascino singolare.

Quando partì per Roma ella m’impose che per qualche tempo non la raggiungessi, spiegando questo suo volere con le infinite incombenze che l’aspettavano per prenderle il suo tempo e per non lasciarle per me che i minimi ritagli della sua giornata. Inutilmente le assicurai che avrei trascorsi i miei giorni in quella sua città ch’io amavo tanto, vicino a lei, anche se separato dalle materialità e dalle esigenze della sua vita. Livia sostenne la necessità d’essere lasciata per qualche settimana sola anche per provare, com’ella diceva sorridendo con graziosa malizia, la forza del mio amore nella lontananza.

Passai quaranta giorni più oscuri di quaranta notti senza luna e senza stelle, scrivendole una lettera al mattino, una a mezzodì e una alla sera come si prendono i pasti, affamato e assetato di lei fino a sentirmene languido e sfinito come per una malattia.

Ella mi rispondeva ogni due o tre giorni ed erano brevi lettere o cartoline affrettate nelle quali si scusava invariabilmente di non scrivere più a lungo per causa delle straordinarie faccende che l’assorbivano, e prometteva una lunga lettera per il domani. Ma quel domani non giungeva mai.

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