Pagina:Guglielminetti - Le ore inutili, Milano, Treves, 1919.djvu/165

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L'uomo tinto 157

E quando ebbe indossato l’abito di velluto molle appena chiuso alla cintura e il cappello stretto da cui sfuggivano alcune ciocche bionde, s’avviò verso l’uscita calzando indolentemente i guanti di camoscio bianco. In anticamera diede qualche ordine alla cameriera e si trovò sulle scale sfolgorate dal gran sole che penetrava dalle finestre a vetri colorati.

Scendeva senza affrettarsi, calcando ogni gradino, col suo passo abbandonato e pigro di donna che spesso sogna e meglio che nella vita ritrova se stessa in qualche angolo incantato della fantasia. Scendeva languidamente nella chiarità calda di quel pomeriggio d’avanzata primavera, chè le torbide meditazioni di poco prima, pur già lontane e quasi dimenticate, le avevano lasciato dentro un amaro di cose insodisfatte, un rimpianto non ben definito, ma tuttavia acre e bramoso.

Sentiva in sè l’oppressione delle sue volontà inappagate e inappagabili sotto forma di quella inquietudine oscura che quasi sempre l’accompagnava, ma che oggi non riusciva a dominare, nemmeno con l’aridità voluta dal suo scetticismo.

Quando fu in fondo alle scale e prima di percorrere l’androne che s’apriva sul viale deserto, si fermò e chinò il capo intenta ad abbottonare