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232 | storia d'italia |
il quale, non dando spazio di respirare a se stesso, andò il dí seguente da Alva a Voghiera, cammino di quaranta miglia, per andare il prossimo dí a Pavia; ove si congiunse col viceré, venuto da Alessandria, ove avea lasciato alla custodia duemila fanti, con grandissima prestezza, in tempo che giá l’esercito del re cominciava a toccare le ripe del Teseno. Quivi consultando tra loro e con Ieronimo Morone delle cose comuni, ebbono il primo pensiero, lasciata sufficiente guardia in Pavia, di fermarsi come l’altre volte aveano fatto in Milano: però ordinorno che subito vi andasse il Morone per provedere alle cose necessarie, e che il duca di Milano, il quale aveano mandato a chiamare, lo seguitasse; essi, lasciato Antonio de Leva a Pavia con trecento uomini d’arme e circa cinquemila fanti, da pochi spagnuoli in fuori, tutti tedeschi, si mossono verso Milano.
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Ma la cittá di Milano, afflitta dalla peste grandissima che l’avea vessata quella state, non pareva piú simile a se medesima: perché del popolo era morto numero grandissimo, di quegli che aveano fuggito tanto infortunio molti erano assenti, non ridotta dentro la copia delle vettovaglie consueta, difficili i modi del fare provedimenti di danari; de’ ripari, non avendo alcuni atteso a conservargli, la maggiore parte per terra: e nondimeno, in tante difficoltá, sarebbe stata la antica prontezza degli uomini alle medesime fatiche e pericoli. Ma il Morone, conoscendo che il mettere l’esercito in Milano piú tosto partorirebbe la ruina di quello che la difesa della cittá, fatta altra deliberazione, fermatosi in mezzo della moltitudine, parlò cosí: — Noi possiamo oggi dire, né con minore molestia di