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VIII

Nella medesima occasione.
(1527, fine — 1528, principio)

Da questi acuti e dispietati strali,
che Fortuna non sazia ognora avventa
nel bel corpo d’Italia, onde paventa
e piagne le sue piaghe alte e mortali,
bram’io levarmi ornai su le destr’ali
che ’l desio impenna e dispiegar giá tenta,
e volar lá dov’ io non veggia e senta
quest’egra schiera d’infiniti mali.

Ché non poss’io soffrir chi fu giá lume
di beltá, di valor, pallida e ’ncolta
mutar a voglia altrui legge e costume
e dir, versando il glorioso sangue:

— A che t’armi, Fortuna? a che sei vòlta
contro chi, vinta, cotanti anni langue?

IX


Nella medesima occasione.

(1527, fine—1528, principio)

Questa, che tanti secoli giá stese
si lungi il braccio del felice impero,
donna de le provincie e di quel vero
valor che in cima d’alta gloria ascese,
giace vii serva; e di cotante offese
che sostien dal Tedesco e da l’Ibero,
non spera il fin, ché ’ndarno Marco e Piero
chiama al suo scampo ed a le sue difese.

Cosi, caduta la sua gloria in fondo
e domo e spento il gran valor antico,
ai colpi de le ingiurie è fatta segno.

Puoi tu, non colmo di dolor profondo,
Buonviso, udir quel ch’io piangendo "dico,
e non meco avvampar d’un fèro sdegno?