Vai al contenuto

Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/154

Da Wikisource.

LX

Bello piú di Ganimede.

Guardando Giove dal balcon celeste
la spaziosa terra e ’l mar profondo,
fermò in Alessi gli occhi e disse: — Al mondo
si bella è adunque una terrena veste?

Vaghezze in ciel non son simili a queste;
Ganimede a costui bene è secondo:
siate, a portarmi al bel viso giocondo,
piume, via piú che l’altra volta preste. —

E, nuova aquila fatto, a lui s’offerse:
ma vicine ai begli occhi arser le penne,
e, per fuggir quel grave incendio a tempo,

d’ambrosia il volto, onde uscia ’l foco, asperse:
quindi’l bel viso un non so che ritenne
sacro e divin che non soggiace al tempo.

LXI


Sul medesimo argomento.
1
Chiamar beato Iddio ben si potea
Giove, s’è ver che d’amor fusse acceso,
quando, converso in aquila, tenea
per l’aria vaga il bel troian sospeso;
e, volando, da sé spesso dicea:

— Tosto godremo il caro amato peso —

e si scordava del suo volo spesso

per tener l’ale a que’ bei fianchi appresso.
2
Cosi dirmi beato anch’io potrei,
se voi non foste al pregar mio rubello:
io men non v’amo, e séte agli occhi miei
non men gentil di Ganimede e bello:
ma, s’io non ho possanza qual gli dèi
e non posso rapirvi e farmi augello,
non gravi voi se, d’abbracciarvi ingordo,
de la modestia mia talor mi scordo.