Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/155

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LXII

Come l’udi, uè fu subito invaghito.

Da quel giorno ch’udir mi fu concesso
il suono e ’l canto e ’l ragionar celeste,
fúr l’amorose cure ardite e preste
a darmi assalto, ond’io sospiro spesso:

e, qual cervo, che ’l veltro abbia da presso,
cerca al suo scampo i boschi e le foreste,
tal io cercando in quelle parti e in queste
l’amato viso vo, c’ho al core impresso.

Piú che mai vago apparve agli occhi miei,
ed in quel punto con sue mani Amore
di dolci fiamme lo dipinse e sparse;

quasi dicesse : — Amante, io non saprei
mostrar piú chiaro in altra guisa il core,
che forse men del tuo quel di non arse.

LXIII


Quanto è bello, tanto sia umano.

Perché, se voi non men chiaro o men bello
l’ingegno avete che leggiadro il volto,
con l’orgoglio vi fate al ciel rubello,
c’ha per voi de le grazie il grembo sciolto?

S’io de la vostra con Amor favello
tanta alterezza, mille biasmi ascolto:
deh, non vogliate, oimè! serpe si fello
ritener piú tra si bei fiori involto.

La vaga fama, a cui dietro ognun corre,
altro non è che de le lingue un suono;
esse dar ponno altrui l’onore e tórre:

l’umanitade a l’uomo è proprio dono;
ciascuno l’ama e ’l suo contrario abborre,
e vai piú che ricchezza un nome buono.