Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/158

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LXVIII

Tormentato come Prometeo.

— Perché accendesti a la divina face
dei celesti occhi il tuo desio terreno,
ti lego a questo sasso e ’l piú rapace
augello scelgo a divorarti ’l seno.

Non sai tu quel ch’avvenne al troppo audace
Prometeo? E forse l’error suo fu meno.

In te l’esempio rinnovar mi piace
per porre ad ogni temerario il freno. —

Cosi dicendo, qui mi chiuse e strinse
di Giove il figlio e con la propria mano
mi pose al cor questa vorace cura:

ma quel fuoco immortai per sua natura,
ancor che manchi ’l nudrimento umano,
per accidente alcun giá non s’estinse.

i.xix

Visioni meravigliose.

Standomi sol co’ miei pensieri un giorno,
cose vedea maravigliose e tante
che non può lingua raccontarle a pieno.
Caro armellin, di sua bianchezza adorno,
si leggiadro e gentil m’apparve innante,
ch’io n’ebbi’l cor d’alta vaghezza pieno;
ma poi, come baleno,
m’usci di vista, ed io, tenendo intese
le luci mie per le belle orme invano,
un cacciator villano

di fango il cinse e con tal arte il prese,
onde pietade e sdegno il cuor m’accese.

Non molto dopo agli occhi miei s’offerse
dolce, amoroso, candido colombo,
né tale il carro a la sua dea sostenne.

Dal ciel, ove le nubi eran disperse,