Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/159

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quasi un angel calar vedeasi a piombo

e fender l’aria senza muover penne;

da traverso poi venne

grifagno augello e di rapina ingordo,

e seco trasse l’innocente e puro

col fiero artiglio e duro

ch’era di furti e d’altre macchie lordo:

e sospiro qualor me ne ricordo.

Si dilettoso e vago colle ameno
non vide forse mai Cipro né Cinto,
quanto quel ch’io mirai mentre al del piacque:
quivi era piú che altrove il del sereno,
quivi il terren piú verde e piú dipinto,
l’aura piú dolce e piú soavi Tacque;
onde nel cuor mi nacque
alto disio di farvi albergo eterno;
e ’l piè fermai; ma fu’l pensier mal saggio,
ché quel fiorito maggio
tosto cangiossi in tristo, orrido verno,
dove continua pioggia ancor discerno.

Felice pianta in quel medesmo colle
fu trasportata e, col favor del loco,
di picciol tronco al ciel s’andava alzando.
Quando ’l sole ha piú forza e ’l terren bolle,
chi s’appressava a la dolce ombra un poco
ponea la noia e la stanchezza in bando:
ivi s’udia cantando
Febo, scordato del suo lauro verde,
tesser d’olmo ghirlande a le sue chiome.

Ed ecco, io non so come,

riman negletta e la vaghezza perde

e serba a pena del suo ceppo ’l verde.

Fuor d’un bosco sacrato e verde sempre,
lasciando ’l nido, ove pur nacque dianzi,
pargoletto leone uscia veloce:
quell’etá par ch’ogni fierezza tempre:
e con questo pensier gli corsi innanzi
ed umano ’l trovai piú che feroce;
ma ’l troppo ardir poi noce,
perché, seco scherzando, in un momento