Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/222

Da Wikisource.

CXLI

Forse al Cardinal Crispo
supplicando perdono.

Se ’l venditor del pio sangue divino
che fu sparso a lavare il nostro errore,
pentito si rendea, l’eterno Amore
ben perdonava a lui come a Longino.

Or se del fallo a che crudel destino
m’indusse e cagion grave e cieco ardore,
di penitenza colmo e di dolore,
umidi ho gli occhi sempre e ’l capo chino.

Deh, non abbia per me, signor, bandita
vostra pietá quella man sacra, a cui
la bilancia e la spada Astrea consegna:

ché Iddio, somma giustizia ed infinita,
quando si rende un cuor pentito a lui,
scorda l’offese e la vendetta sdegna.

CXLII


In morte del capitano Girolamo da Orvieto
castellano della cittadella di Perugia.

L’una e l’altra prigione inferma e dura
qua giú lasciando, or sei libera e sciolta,
alma, salita ove ogni cura è tolta,
né ti convien guardar porte né mura.

Il valore, il saper, l’estrema cura
al vero onore, a l’altrui ben rivolta,
e la tua fede in bianco drappo involta
non diverrá giá mai per tempo oscura.

A che dunque turbar la tua quiete
con le lacrime vane e coi sospiri,
quasi invidiando il tuo felice stato?

Fossi teco io che nel varcar di Lete
spegnerei forse i miei lunghi desiri
e l’ardor eh’immortale al cor m’è nato.