Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/266

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A che chiede costui l’armi di Teti,
che disarmato va sempre e nascoso?

Non sa ch’i furti non terria segreti
l’elmo che per molt’oro è luminoso,
né ’l braccio, avvezzo altrui tender le reti,
de l’asta il peso reggeria gravoso,
né la sinistra sarebbe atta al pondo
del bello scudo ove scolpito è il mondo?
20
Perché cercare un don che poi ti renda
debole e fiacco? E quando il greco errore
tei concedesse, ti daria faccenda
d’esser preda ai nimici e non terrore;
e non è ben che si gran soma prenda
un eh’è pronto a la fuga a tutte l’ore;
oltra che ’l tuo scudo nuovo è rimasto
e ’l mio per mille colpi è rotto e guasto.
21
Ma che tante parole? Immantinente
vengasi ai fatti, e l’armi di Vulcano,
che portò giá quel cavalier valente,
gettinsi in mezzo a l’empio stuol troiano,
e qual di noi da la nimica gente
racquistar le saprá col brando in mano,
quel sia da voi de l’alte spoglie adorno,
e l’altro resti con perpetuo scorno. —
22
Giá si tacea di Telamone il figlio;
ma quel eh’in fin del suo sermon raccolse,
seguito fu dal popolar bisbiglio,
fin che l’itaco saggio in piè si tolse,
il qual, fisso a la terra alquanto il ciglio,
levò gli occhi a quei primi e ’l freno sciolse
a quel suon che aspettava ognun intento,
né senza grazia muove alcun accento: