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Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/57

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LXXXI

Vorrebbe pur renderla pietosa.

La fiamma almen de’ sospir caldi e spessi
che romper l’aere fanno, ovunque stanco
Torme altrui fuggo, nel gelato fianco
un foco accender di pietá potessi!

Tu me ’l pur giuri, Amor, per quelli stessi
strali co’ quai m’apristi ’l lato manco:
io, che per téma ad ora ad ora imbianco,
scorger non lasso i miei pensieri oppressi,
come quel che ben ho questi anni addietro,
con mio non largo onor, provato sempre
mie speranze e tua fé di fragil vetro.

Ma fa, s’avvien che dopo mille inganni
con poco dolce il molto amaro tempre,
che non piú a lacrimar mi ricondanni.

LXXXII


Supplica, lacrimando, amore.

— Com’avrá sparsi i santi odor l’Aurora
col grembo d’oro in questa parte e ’n quella,
tesserti mi vedrai laurea si bella,
ch’invidia te n’avran Cerere e Flora,
immortai dea: s’al biondo Apollo ancora
non cedi né a sua chiara invida stella,
non mi sei giá men cara, alma sorella;
se tu argenti le rive, egli le ’ndora.

S’a quest’olmi due viti, a que’ due faggi
l’edra è per sempre, ahi misera! abbracciata,
perch’io non teco, o dolce Tirsi mio?—
Cosi spargendo Alcippe innamorata
lacrime e voci a Tirsi lungo ’l rio,
sen gir fuggendo d’oriente i raggi.