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238 Capitolo trentatreesimo

Il signor Albani aveva già accesi alcuni fiocchi di cotone ed un pezzo di candela datagli dal mozzo. In pochi istanti i giunta-wan presero fuoco quantunque fossero bagnati ed una grande fiammata s’alzò, illuminando le scogliere e le onde che venivano ad infrangersi contro la costa.

In quel momento il cielo, come se fosse geloso di quella luce, s’illuminò: un lampo immenso fendette le nubi come una immane scimitarra, facendo scintillare il mare fino agli estremi confini dell’orizzonte.

— La giunca! — avevano gridato i tre marinai.

Non si erano ingannati. Alla livida luce di quel lampo avevano scorto, a circa un miglio dalla spiaggia, una di quelle navi di forme pesanti e barocche, colla prua alta e quasi quadra, che i cinesi chiamano giunche. Certamente doveva essere quella segnalata al mattino.

Era stata veduta per pochi istanti, ma i tre marinai sapevano ormai che quella nave si trovava in condizioni disperate, poichè non avevano scorto alcun albero, nè alcuna vela.

Senza dubbio l’alberatura era stata abbattuta dalla furia dell’uragano e quella carcassa, impotente a dirigersi, veniva trascinata, spinta, scaraventata contro le scogliere dell’isola.

Di quando in quando il cannone tuonava sul ponte della povera nave e s’alzavano grida acute, grida disperate invocanti soccorso.

— Enrico, — disse il veneziano, che non poteva tenersi fermo. — Credi che si possa affrontare le onde colla nostra scialuppa?...

— No, signore; sarebbe un’imprudenza che ci costerebbe la vita senza poter recare alcun aiuto ai naufraghi.

— Ma noi non possiamo rimanere qui inoperosi, mentre quei disgraziati corrono il pericolo di venire subissati.

— Le onde li spingono verso di noi, signore, — disse il maltese. — Quando la giunca si sfascerà, saremo pronti a soccorrere i naufraghi.

— Taci!... Ho udito un scroscio! —