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48 Capitolo settimo

— Lo dite sul serio?...

— Sì, ma prima dovremo costruire il forno e per ora preferisco avere una capanna.

— Diamine! Anche il forno! Avremo da lavorare molto, prima di possedere tuttociò che è necessario alla nostra esistenza.

— In marcia! —

Lasciarono la tenda, armati della lancia e della scure e si diressero verso la piantagione di bambù, la quale si estendeva per un lungo tratto, costeggiando una specie di pantano che conservava ancora delle tracce di umidità.

Quella piantagione era formata di parecchie varietà di bambù. V’erano i tuldo che sono dei più grandi della specie, che in soli trenta giorni acquistano un’altezza da quindici a diciotto metri ed una grossezza di trenta centimetri; i balcua chiamati dagl’indigeni balcas-bans, pure altissimi ma sottili; i blume chiamati anche hauer-tgiutgiuk, armati di spine ricurve e coperti di foglie assai strette; i bambù selvaggi chiamati teba-teba, storti e pure spinosi, ed infine dei bambù giganti, i più alti e più grossi di tutti, poichè toccano sovente perfino trenta metri d’altezza con una circonferenza di un metro e mezzo a due, ma che sono però i meno solidi.

— Qui abbiamo quanto ci occorre — disse il veneziano. — Voi non vi potete immaginare quante cose utilissime si possono ricavare da queste piante.

— Da queste canne! — esclamò il marinaio, con tono incredulo. — Tutt’al più serviranno a fare delle case.

— T’inganni, Enrico; anzi ti dirò che ben poche piante sono più preziose e più utili di queste.

— Sarei curioso di sapere a cosa ci potrebbero servire.

— Cominciamo dai germogli, se vuoi: ti piacciono gli asparagi?

— Gli asparagi!... Ma che c’entrano quei deliziosi....

— Ah!... ti piacciono assai!... — lo interruppe il signor Albani. — Allora ti dirò che le giovani gemme di queste