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La capanna aerea 51

si denudò le braccia e le immerse, rimuovendo la terra del fondo. Scavò per parecchi minuti, esaminando sempre il fango che levava, poi estrasse una materia grigiastra, lievemente grassa.

— Argilla, — disse, con una certa soddisfazione. — Non mi ero ingannato; ho trovato le mie pentole. —

Continuò a scavare ricavando dell’altra argilla, ne fece una grossa palla che avvolse nella propria giacca, poi continuò a inoltrarsi nella piantagione, seguendo una specie di sentiero cosparso di bambù spezzati o piegati, che doveva essere stato aperto dal felino. Dopo dieci minuti giunse in una piccola radura, in mezzo alla quale scorse, distesa a terra, una grossa carcassa semi-spolpata e sanguinante.

— Adagio, — mormorò, impugnando la lancia. — La tigre può trovarsi vicina. —

Fiutò più volte l’aria per sentire se c’era odore di selvatico, odore che tradisce la presenza di quei grossi e feroci felini, poi s’avanzò cautamente, guardando dinanzi, a destra ed a sinistra.

La preda abbattuta dalla tigre era un babirassa, animale grosso come un cervo, la cui carne è eccellente avendo il gusto di quella del cinghiale. Attorno alle ossa vi era ancora tanta polpa da nutrire dieci uomini affamati.

Tagliò un bel pezzo che pesava parecchi chilogrammi, poi abbandonò rapidamente quel luogo pericoloso, temendo di venire sorpreso dal felino, il quale forse sonnecchiava nei dintorni.

Quando uscì dalla piantagione, il marinaio ed il mozzo stavano trasportando gli ultimi bambù.

— Avete trovata la colazione, signore? — chiese Enrico.

— Sì, amico, e anche delle pentole.

— Delle pentole!... Eh, via, scherzate?

— Non dico di averle trovate già fatte e pronte per metterle sul fuoco, ma porto con me dell’argilla per fabbricarle.

— Ma voi siete la provvidenza in persona, signore! Mio