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76 Capitolo undecimo

Ad un tratto si sentì come uno scricchiolìo d’ossa infrante, e rettile e mias caddero entrambi a terra, ancora strettamente avvinti.

— Morti? — chiesero il marinaio ed il mozzo, che avevano seguito, con viva ansietà, le fasi di quella tremenda lotta.

— Mi pare di udire ancora la respirazione del mias, — rispose il veneziano. — Sarà cosa prudente lanciargli una freccia, prima di scendere. —

Alzò la cerbottana e soffiò dentro con forza. Il dardo silenzioso partì rapido e andò a conficcarsi nel petto dell’uomo dei boschi.

Si udì un sordo grugnito, ma poco dopo la respirazione della scimmia gigante cessava.

— Ora possiamo discendere, — disse Albani.

— No, signore! — esclamò il mozzo.

— Perchè?... Sono morti entrambi.

— Guardate, là, presso i cespugli. —

Il veneziano ed il marinaio guardarono nella direzione indicata e videro uscire dai cespugli una scimmia che aveva già una statura superiore ad un metro e di complessione robusta. S’avanzava titubando verso il gruppo formato dal mias e dal boa, emettendo dei gemiti che avevano qualche cosa d’umano.

— È il figlio dell’orang-outan — disse Albani.

— Era adunque una femmina, — disse il marinaio. — Povero piccino!... Potrà vivere solo?

— È già sviluppato, — rispose Albani.

— Lo lasceremo andare?...

— Penso che potrebbe esserci utile, Enrico.

— Quello scimmiotto!...

— Faremo di lui un valente e robusto servitore.

— Ma quando diverrà grande ci accopperà, signore.

— I dayachi ne adottano sovente e mai hanno avuto da lagnarsi. In schiavitù pare che perdano i loro istinti feroci. Quel mias, col suo vigore straordinario, ci potrà rendere dei grandi servigi.