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Pagina:I Vicerè.djvu/148

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146 I Vicerè


— Non so ancora che cosa farò. A Milazzo non vado di sicuro.

— Lasceremo dunque sola quella creatura? Se impediranno il transito, se non potremo più vederla?

— Prima di tutto tua figlia non è abbandonata in mezzo a una via, ma con suo nonno e sua zia. Poi, se quella testa dura di tuo padre m’avesse ascoltato, a quest’ora l’avrebbe portata qui, e saremmo pronti ad andarcene tutti insieme al Belvedere, dove non c’è neppur l’ombra del pericolo.... Insomma a Milazzo non vengo; già si parla di casi sospetti a Messina. Vattene sola, se vuoi.

E tutti gli Uzeda, quasi godendo dell’ambascia di lei, quasi per non lasciarla scappare dalle loro ugne, approvavano, dicevano che oramai ciascuno doveva restar dov’era. E suo padre la rimproverava acremente di ostinazione e d’egoismo, mentre ella credeva d’impazzire, sognando tutte le notti sogni spaventosi di lente agonie, di separazioni senza ritorno, di spietate torture; piangendo come morta la sua bambina, l’altra creatura che s’agitava nelle sue viscere; vedendo suo padre e Raimondo avventarsi l’uno contro l’altro.... E un giorno terribile come una notte d’incubo il principe venne a dire che il primo caso s’era manifestato in città, che le strade si chiudevano, che bisognava subito partire pel Belvedere — dove anche i Fersa sarebbero venuti....


La villa Francalanza, al Belvedere, era tuttavia nello stato in cui trovavasi tre mesi addietro, al momento della morte della principessa. Là si riunirono, con la rispettiva servitù, la famiglia del principe ed i suoi ospiti, cioè Chiara e il marchese, donna Ferdinanda, il cavaliere don Eugenio, Raimondo e sua moglie. Ferdinando non aveva voluto sentirne di lasciar le Ghiande: c’era rimasto pel colera dell’altr’anno, voleva restarci anche per quest’altro, dichiarando che nessun luogo offriva maggiori garanzie d’immunità. Don Blasco e il