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178 I Vicerè

il latino e l’aritmetica, più la calligrafia e il canto corale, le domeniche. A terza, dopo le lezioni, c’era la messa, che scendevano ad ascoltare in chiesa; la più grande di Sicilia, tutta marmo e stucco, bianca e luminosa, con la cupola che sfondava il cielo e l’organo di Donato del Piano costato tredici anni di lavoro e dieci mila onze di denari. Subito dopo la messa, i novizii andavano al refettorio, certe volte in quello grande insieme coi Padri, certe altre da soli, nel piccolo, secondo prescriveva la Regola; ma lo spasso cominciava più tardi, dopo il desinare, quando essi si sparpagliavano per il giardino, dove si mettevano a giocare a rimpiattino, alle bocce, ai castelletti, oppure zappavano o coltivavano ciascuno i proprii alberi, oppure mandavano per aria aquilotti e palloni. Oltre il muro di cinta, distendevasi un terreno incolto, tutto lava e sterpi, fino alla Flora — il giardino grande destinato al diporto dei monaci, dove i ragazzi andavano di tanto in tanto, a rincorrersi pei grandi viali — e il principino, che aveva subito preso le abitudini del convento ed era il più diavolo di tutti, spesso arrampicavasi su quel muro, tentava di scavalcarlo e andarsene nella sciara; ma allora il Padre Maestro e frà Carmelo ammonivano:

— Di là non si passa!... Non t’arrischiare da quella parte che ci bazzicano gli Spiriti: se t’afferrano ti portano via con loro....

— Li hai visti tu, questi Spiriti? — domandò una volta Consalvo a Giovannino Radalì.

— Io, no; ci vanno la notte, dicono.

— E la notte non potevano guardarci perchè, dopo la passeggiata vespertina che facevano giù in città, e dopo la cena, rientravano per lo studio e per le preghiere della sera.

Frà Carmelo teneva loro compagnia, badava che non mancassero di nulla, e quando non c’era da fare, li svagava parlando dei novizi d’un tempo, che adesso erano monaci o alle case loro, narrando le storie antiche, il famoso furto della cera nella notte del Santo