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246 I Vicerè

dell’Acqua, cercando rifugio, diceva che la mischia più forte era impegnata ai Quattro cantoni, ma che del resto i ribelli tiravano sulle truppe alla spicciolata, nascosti dietro gli angoli delle case, o dalle terrazze. Le spie borboniche, pallide, esterrefatte, andavano ficcandosi nelle celle dei Fratelli; Garino, venuto dei primi a chiudersi a San Nicola, s’attaccava alla tonaca di don Blasco e pareva più di qua che di là. Anche il principino stava al fianco dello zio, non osando neppure lagnarsi delle busse ricevute, mentre Giovannino Radalì e gli altri ragazzi liberali, attorniato Frà Carmelo, gli dicevano:

— Adesso arriva Garibaldi!... Andremo tutti via!... Non ci torneremo più!...

Prima di sera cessò lo scampanìo e il cannoneggiamento; don Blasco, andato a interrogare i passanti dai muri della Flora, tornò agitando le braccia e smascellandosi dalle risa:

— La gran rivoluzione è finita!... Sono usciti i lancieri, hanno nettato le strade!... Evviva!... Evviva!...

La notizia venne confermata da tutte le parti, ma il duca, prudentemente, restò dentro pel momento. La gioia di don Blasco fu però di corta durata: il domani, avuti gli ordini da Napoli, Clary si preparò alla partenza; e consegnata la città a una Giunta provvisoria, s’imbarcò il giorno appresso con tutti i suoi soldati.


Don Lorenzo Giulente col nipote, saliti a San Nicola, invitarono il duca al municipio, dove i migliori cittadini attendevano a disciplinare la rivoluzione. Già, partita la truppa, nella prima ebbrezza dalla liberazione, nel primo impeto della vendetta, torme di popolani avevano dato la caccia ad uno dei più tristi e odiati sorci di polizia, e uccisolo ne avevano portato in giro la testa. Tremava il cuore al duca, all’idea di lasciare il sicuro asilo del monastero e di scendere nella città in fermento; ma i due Giulente lo assicuravano che adesso tutto era cheto e che gli amici lo aspettavano. Così