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I Vicerè 277

tamente in salute e pareva sopportare con sufficiente rassegnazione la sua disgrazia; il marchese non lasciava il capezzale della puerpera e si chinava a parlarle all’orecchio: nessuno dei due ascoltava i motti feroci di donna Ferdinanda contro il fratello, i ragionamenti storico-critici che il cavaliere teneva al principino, venuto anche lui a far visita alla zia col Priore e Frà Carmelo. Chiara aveva mandato a chiamare Ferdinando, e lo aspettava con viva impazienza: quando egli apparve se lo fece venire accanto e gli parlò piano, lungamente. Poi chiamò la cameriera e, cavato di sotto al guanciale un mazzo di chiavi, glielo diede, ordinandole in mezzo al frastuono della conversazione:

— Sai la boccia dello strutto, nel riposto?... la grande?... Prendila, vuotala e nettala bene.... Ma bene mi raccomando! Se c’è acqua calda è meglio.

Pronta che fu la boccia, Ferdinando andò a vederla.

— Va bene, — disse; — adesso ci vuole lo spirito.

La marchesa ordinò che andassero a comprarlo; e allora in mezzo al cerchio dei parenti stupefatti, fu recato il feto, giallo come di cera, che Ferdinando lavò, asciugò e introdusse poi nella boccia dove versò lo spirito e adattò il tappo.

— C’è un po’ di sego?... di creta?...

— Ho il mio cerotto, se ti serve... — disse il marchese.

E del cerotto che appestava la camera Ferdinando spalmò l’incastratura del tappo, perchè non entrasse aria nel recipiente. La marchesa seguiva attentamente l’operazione; Consalvo, con gli occhi spalancati, guardava quel pezzo di grasso diguazzante nello spirito; a un tratto disse a don Lodovico:

— Zio, non pare la capra del museo?

Al museo dei Benedettini c’era infatti un altro aborto animalesco, un otricciuolo con le zampe, una vescica sconciamente membrificata; ma il parto di Chiara era più orribile. Don Lodovico non rispose; fatta una breve visita alla sorella, andò via. Anche gli altri a poco a