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296 I Vicerè

l’uscio d’entrata. Chi poteva essere? Ferdinando? La duchessa?...

Spuntò don Blasco.

Il monaco, come la sorella, non metteva piede al palazzo dal giorno del fidanzamento di Lucrezia; come donna Ferdinanda, ne aveva scagliata la colpa sul principe, ed era rimasto talmente sordo ad ogni giustificazione, che quest’ultimo s’era finalmente seccato d’insistere, non avendo da sperarne eredità come dall’altra. Allora, vistosi solo, senza poter occuparsi degli affari della parentela, costretto a udirne le notizie di seconda o di terza mano, per mezzo del marchese Federico o degli estranei, il monaco s’era visto perso. Le brighe del convento l’occupavano fino a un certo punto; le grida e le bestemmie contro i liberali, quantunque raddoppiate dopo la sistemazione del nuovo ordine di cose, non gli bastavano, non avevano gusto se egli non le proferiva a palazzo, nello stesso luogo dov’erasi compito il trionfo di quel rinnegato del fratello, dove quel cialtrone di Giulente doveva vomitare le sue eresie. Così, sbuffante e smaniante, più di una volta era stato sul punto d’andarsene dal principe; ma, giunto a mezza via, s’era pentito, non aveva voluto dare al nipote la soddisfazione di cedere pel primo. All’annunzio dell’arrivo del duca e del barone, della pace che si doveva celebrare tra suocero e genero, non era stato più alle mosse.

Il principe gli andò incontro a baciargli la mano. Lucrezia e Giulente, seduti accanto, erano i più vicini all’uscio d’entrata; e il giovanotto s’alzò, come aveva fatto per la zitellona, al passaggio del monaco; ma questi tirò dritto verso il centro della sala. Al secondo affronto, Lucrezia si fece più rossa, e costretto il promesso a sedere.

— La pagheranno, sai! — disse, — la pagheranno!... Se mi vedranno più in questa casa!... Se t’arrischierai di guardarli più in viso!...

Il duca parve non accorgersi dell’arrivo del fratello.