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I Vicerè 443

la stessa paura dei sudiciumi contagiosi. Come suo padre più gli s’avvicinava porgendo la lettera, più egli si scostava, con le mani dietro la schiena, per evitare di prenderla.

— Va bene... va bene... — diceva, schermendosi e guardando di sbieco i caratteri; — ho visto... è don Antonio Sciacca.

— Ah, don Antonio? — gridò il principe. — Dunque è vero? Non ti dài neppur la pena di fingere?... Ed hai il coraggio...

Consalvo piantò a un tratto gli occhi negli occhi del padre, guardandolo fisso, con un’espressione dura, come di sfida, e lasciato improvvisamente il lei:

— Che cosa volete?... — gli disse. — Avevo bisogno di danari... Me ne date tanti!... Li ho presi: voi che ne avete li pagherete...

Il principe pareva sul punto di cader fulminato. Rivolgendo al figliuolo uno sguardo non meno fisso nè meno duro:

— Pagherò un cavolo... pagherò!... — articolava. — I miei quattrini?... Ti lascerò condannare e legare, bestione! Capisci, bestione?

Più freddo di prima, Consalvo rispose:

— Va benissimo. Dunque non mi seccate...

— Ah, ti secco?... Ti secco?...

E di repente, come uno che riesce a vomitare dopo vani conati, cominciò a sfogarsi. Gonfiava da due anni, per due lunghi anni aveva lasciata la briglia sul collo al figliuolo; durante tutto quel tempo aveva compresso, soffocato, vinto l’imperioso bisogno che era in lui di comandare, di veder tutti piegare dinanzi alla propria volontà di capo della casa, di padrone, di arbitro assoluto del destino della famiglia; egli che aveva martoriato tutti i suoi, fatto di loro ciò che gli era piaciuto, s’era piegato a lasciar la briglia sul collo al figliuolo, a colui sul quale più legittimamente avrebbe potuto esercitare la propria potestà. Per due anni, fingendo la tolleranza, l’indulgenza, l’affezione, s’era arrovellato sor-