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472 I Vicerè

cavaliere, che il capo della casa, se fosse stato un altro, avrebbe dovuto aiutare i parenti che non erano ricchi quanto lui... Don Eugenio, fumando e sputando, con le gambe magre da don Chisciotte accavalciate, chinava il capo, dava ragione al cocchiere, si dava ragione da sè: «Io l’avevo detto... così non poteva durare... mio nipote ha un certo modo!...»

Al fresco del vestibolo la conversazione si prolungava: padrone e servo discorrevano intimamente, da pari a pari, mescolando il fumo della pipa e del sigaro; anzi, quantunque Pasqualino non fosse elegante come un tempo, pure sembrava il padrone, e don Eugenio il creato. Il guardaportone, tra scandalizzato ed invidioso della confidenza che il cavaliere accordava al cocchiere, spasseggiava dignitosamente dinanzi all’entrata, con le mani sul dorso del soprabitone gallonato.

— Chi è quel pezzo di straccione? — gli domandavano i commessi dell’amministrazione, uscendo dopo il lavoro.

— Uno zio del signor principe, dice!


E, tutto sommato, fu la miglior accoglienza che ebbe il povero don Eugenio. Il domani egli cominciò il giro dei parenti che erano in città: andò prima di tutti dal fratello don Blasco.

Il monaco pareva sul punto di scoppiare: il pancione gli s’era imbottito di lardo e la testa ingrossata; il mento si confondeva con la massa gelatinosa del collo. Non poteva muoversi, per l’enormezza della persona, per la fiacchezza delle gambe; e accanto a lui donna Lucia, la moglie di Garino, sembrava svelta e leggiera.

— Perché sei tornato? — disse al fratello, appena lo vide entrare ed a modo di saluto. Aveva infatti ricevuto la circolare dell’Araldo sicolo, e comprendendo da questo che doveva essere con l’acqua alla gola, metteva le mani avanti, per evitare richieste di sussidii.

— Sono venuto per poco, — rispose don Eugenio; — prima di tutto per rivedervi, e poi per fare associati all’opera di cui ti ho mandato il manifesto...