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626 I Vicerè

la testa ancora in fiamme. Vedendo entrare la moglie, non disse nulla. Lucrezia gli si fece vicino:

— Come ti senti? — gli domandò.

— Bene, — rispose Giulente, senza guardarla.

— Vuoi desinare?

— Come ti piace.

— O credi che sia presto?

— Come credi.

— Allora posso ordinare?

Egli fece col capo un gesto d’indifferenza. Lucrezia dette ordine che allestissero. Poi tornò nella camera del marito.

— Perchè resti a letto? Hai nulla?

— No, nulla.

Benedetto s’alzò per andare a buttarsi sopra una poltrona. Era pentito dell’atto brutale, ma non esprimeva il pentimento. Ruminava continuamente il suo rancore, considerava i partiti che gli si presentavano, non sapeva a quale appigliarsi.

— Che avete deciso al Municipio? — domandò ancora Lucrezia.

— Non so niente!... — proruppe egli. — Non voglio sentir parlare più di nulla!... Vadano tutti al diavolo!... Se qualcuno dei tuoi mi viene innanzi, lo mando ruzzoloni per le scale.

— Hai ragione, — rispose sua moglie.

Dietro l’uscio, il giorno innanzi, aveva compreso dai discorsi degli assessori il tiro giocato da Consalvo a suo marito; aveva capito che Benedetto non poteva essere deputato. Nel primo momento era rinata in lei l’avversione pel nipote, per quegli Uzeda che pareva avessero giurato di schiacciarla e pretendevano accaparrare tutto per loro. Ma non sapeva ancora con chi prendersela. Era proprio colpa di Consalvo, o non piuttosto di quella bestia di Benedetto? Ciò che avevano detto gli assessori era vero? Il duca non avrebbe riparato?... Nè l’aspetto sconvolto di Giulente quand’era rincasato, nè le violente parole contro Consalvo e il duca l’avevano persuasa; forse egli