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I Vicerè 69

dall’Abate e da quasi tutti i monaci, egli si attirò l’odio più acre e violento dello zio. Assetato di potere, don Blasco voleva anch’egli esser Piore ed Abate; ma la vita scandalosa, il carattere violento, l’ignoranza supina gli rendevano se non impossibile per lo meno difficilissimo l’appagamento di quell’ambizione, tanto che non prima di quarant’anni era stato decano; veder dunque a quel posto il nipote «col guscio ancora in... capo» lo fece uscir fuori dalla grazia di Dio. E la lotta tremenda scoppiò alla morte del Priore Raimo, nei primi di quell’anno 1855. Che uno degli Uzeda, i cui antenati erano stati tanto benemeriti del convento, dovesse occupare la carica vacante, era fuori contestazione; ma don Blasco pretendeva lui la dignità, nè credeva che quel «gesuita» del nipote potesse sognarsi di contrastargliela: quando seppe che quel «porco» gli faceva la concorrenza e ardiva mettersi di fronte allo zio, mancò poco non gli pigliasse un accidente. Quello che gli uscì di bocca contro Lodovico fu cosa da attirare i fulmini sulla cupola di San Nicola e da incenerire il convento con tutti i suoi abitanti; il meno che gli disse fu «ruffiano del Capitolo, vuotapitali dell’Abate e figlio di non so chi...» Don Lodovico lo lasciò dire, edificando l’intero monastero con l’umiltà opposta alla violenta aggressione dello zio. Era troppo sicuro del fatto suo: l’elezione di don Blasco, il quale aveva seminato figliuoli in tutto il quartiere e manteneva tre o quattro ganze, fra cui la famosa Sigaraia, ed era tanto ignorante e prepotente, giudicavasi da tutti impossibile: sul nipote aveva il solo vantaggio dell’età, ma questo non era tale da compensare tutti i suoi enormi difetti. A maggioranza strabocchevole fu eletto don Lodovico; da quel giorno don Blasco diventò una bestia contro quel «porco gesuita» e quella «....» quella «....» della principessa, alla quale fece naturalmente una nuova, più grave, imperdonabile colpa del calcio assestatogli da quel «gesuita porco».