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che rimanevano in paese. Oltracciò possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso nel tempo in cui era disoccupato dal filatoio, di modo che nella sua condizione poteva dirsi agiato. E quantunque quell’anno fosse più scarso ancora degli antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure egli, che da quando aveva posto gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava fornito bastantemente di scorte, e non aveva a piatire il pane. Comparve dinanzi a don Abbondio, in gran gala, con piume di vario colore al cappello, col suo pugnale del bel manico nella taschetta delle brache, con una certa aria di festa e nello stesso tempo di braveria comune allora anche agli uomini i più quieti. L’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare coi modi gioviali e risoluti dei giovinotto.
— Che abbia qualche pensiero pel capo, argomentò Renzo tra sè, poi disse: “son venuto, signor curato, per sapere a che ora le convenga che noi ci troviamo in chiesa.”
“Di che giorno volete parlare?”
“Come, di che giorno? non si ricorda ella che oggi è il giorno stabilito?”
“Oggi?” replicò don Abbondio, come se