Pagina:I promessi sposi (1825) II.djvu/314

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Don Abbondio, a quelle dimostrazioni, stava come un ragazzo pauroso, che veggia uno accarezzare sicuramente un suo cagnaccio grosso, ispido, cogli occhi rossi, con un nomaccio famoso per morsi e per ispaventi, e senta dire al padrone che il suo cane è un buon bestione, quieto, quieto: guarda il padrone, e non contraddice nè approva: guarda il cane, e non ardisce accostarsegli per timore che il buon bestione non gli mostri i denti, fosse anche per vezzo; non ardisce allontanarsi, per non parere un dappoco; e dico in cuor suo: oh se fossi a casa mia!

Al cardinale, che s’era mosso per uscire, tenendo sempre per mano e traendo seco l’innominato, diè di nuovo nell’occhio il pover uomo, che rimaneva indietro, goffo, mortificato, con tanto di muso. E pensando che forse quel cruccio gli potesse anche venire dal parergli d’esser trascurato e come lasciato in un canto, massimamente a rincontro di un facinoroso così accolto, così careggiato, se gli volse in passando, ristette un momento, e con un sorriso amorevole, gli disse: signor curato, voi siete sempre con me nella casa del nostro buon Padre; ma questi..... questi perierat, et inventus est.”

“Oh quanto me ne consolo!” disse don