Pagina:I promessi sposi (1825) III.djvu/272

Da Wikisource.

267

un’altra di più facile accesso. E sa il cielo quante porte s’imaginava egli che Milano dovesse avere.

Giunto adunque dinanzi alle mura, ristette quivi a guardar d’intorno, come fa chi, non sapendo dove gli torni meglio di rivolgersi, par che ne aspetti e ne richiegga qualche indizio da ogni cosa. Ma, a dritta e a sinistra, non iscorgeva che due pezzi d’una strada bistorta, al dirimpetto, un tratto di mura; da nessuna parte, nessun segno d’uomini viventi: se non che, d’in su un luogo del terrapieno, si vedeva sorgere una densa colonna d’un fumo scuro e crasso, che salendo s’allargava e s’avvolgeva in ampii globi, sperdendosi poi nell’aria immobile e bigia. Eran vesti, letti e altre masserizie infette che si bruciavano: e di tali tristi falò se ne faceva di continuo, non quivi soltanto, ma per ogni lato delle mura.

Il tempo era chiuso, l’aere grosso, il cielo velato per tutto da una nuvola o da un nebbione eguale, inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la pioggia; la campagna d’intorno, parte incolta e tutta arida; ogni verdura smunta, e nè una gocciola di rugiada sulle foglie passe e cascanti. Per soprappiù, quella solitudine, quel silenzio, così accanto a una gran massa di abitazioni, aggiugnevano una nuova costernazione alla inquie-