Pagina:I promessi sposi (1825) III.djvu/421

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sero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacchè la c’era questa birberia, dovevano almeno approfittarne anch’essi.

Il bello era sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che vi aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. “Ho imparato,” diceva, “a non mettermi ne’ garbugli: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a non bere più del bisogno: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è attorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non affibbiarmi una campanella al piede, prima d’aver pensato che ne possa nascere.” E cento altre cose.

Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sè, ma non ne era appagata; le pareva, così in confuso che vi mancasse qualche cosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di meditarvi ogni volta, “e io,” diss’ella un giorno al suo moralista, “che cosa ho io d’avere imparato? Io non sono a andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercarmi me. Quando non voleste dire,” aggiunse ella, soavemente sorridendo, “che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a a voi.”