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affossate, nelle pinne stirate del naso aguzzo, nelle livide, sottili labbra, non solo serrate, ma anche in qualche punto attaccate dall’essiccamento degli umori.
— Oh figlia.... oh figlia.... — esclamò. — Donna Caterina.... sono io.... Mauro.... il cane guardiano di vostro padre.... Guardatemi.... aprite gli occhi.... da voi voglio essere guardato.... Aprite gli occhi, donna Caterina; guardando me, guardate la vostra stessa pena.... Sentitemi: debbo dirvi una cosa.... torno da Roma....
Urtando contro la rigida impassibilità funerea della morente, la commozione di Mauro Mortara si spezzò a un tratto in striduli singhiozzi molto simili a una risata.
L’Agro e Giulio, anch’essi piangenti, se lo presero in mezzo e, sorreggendolo per le braccia, lo trassero fuori della camera.
La morente, rimasta sola, nell’ombra, immobile su i guanciali ammontati, udì tardi la voce, come se questa avesse dovuto far molto cammino per raggiungerla nelle profonde lontananze misteriose, ove già il suo spirito s’era inoltrato. E da queste lontananze, in risposta a quella voce, tardi venne alle sue pàlpebre chiuse una lagrima, ultima, che nessuno vide. Sgorgò da un occhio; scorse su la gota; cadde e scomparve tra le rughe del collo.
Quando Pompeo Agro tornò a sedere su la poltrona a pie’ del letto, nè più nell’occhio, nè più su la gota ve n’era traccia.
Donna Caterina era morta.