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110 lauda xlvii


     Tu engrassi questa carne — a li vermi en sepultura,
deverila cruciare — en molta sua mala ventura.
     Non curar piú d’esto corpo, — ché la cura n’ha ’l Signore
né de cibo né de vesta — non curar del malfattore.
     — Falsadore, io notrico — lo mio corpo, no l’occido;
de la tua tentazione — beffa me ne faccio e rido.
     Io notrico lo mio corpo — che m’aiuta a Dio servire,
a guadagnar quella gloria — che perdesti en tuo fallire.
     — Gran vergogna è a te fallace — sostener carne corrutta,
la battaglia cusí dura — guadagnar lo ciel per lutta.
     Tu me par che si’ indiscreto — per lo modo che tu fai,
cruciar cusí el tuo corpo — e de lui cagion non hai.
     Tu deveri aver cordoglio, — ché è vecchio e descaduto,
non deveri poner soma — né che solva piú tributo.
     Tu deveri amar lo corpo — como ami l’anima tua,
ché t’è grande utilitate — la prosperitate sua. —
     — Io notrico lo mio corpo — dargli sua necessitate,
accordati simo ensieme — che vivamo en castitate.
     Per l’astinenza ordenata — el corpo è deventato sano,
molte enfirmitá ha carite — che patea quand’era vano.
     Tutta l’arte medicina — sí se trova en penetenza,
che gli sensi ha regolati — en ordenata astinenza.
     — Un defetto par che aggi — che è contra la caritate;
degli pover vergognosi — non par ch’agi pietate.
     Tu deveri toller frate — che te voil l’om tanto dare,
sovenir a besognosi — che vergognan demandare.
     E faríe utilitate — molto grande al daitore,
e siría sostentamento — grato a lo recepetore.
     — Non so piú che m’è tenuto — lo mio prossimo d’amare,
e per me l’agio arnunzato — per potere a Dio vacare.
     S’io pigliasse questa cura — per far loro acattaría,
perdería la mia quiete — per lor mercatantaría.
     S’io tollesse e daesse, — nogl porría mai saziare,
e turbára el daitore — non contento del mio dare.
     — Un defetto par che agi — del silenzo del tacere,
multi santi per quiete — nel deserto volser gire.