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lauda xxiv 49


     Ecco lo verno che viene piovuso,
diventa lotuso — e rio gir d’entorno;
venti, freddura e neve per uso
a l’omo è noioso — per far suo sogiorno;
non è nel monno — tempo che piaccia
e questa traccia — non è mai finita.
     Ecco la state che vien con gran calde,
angustie grande — con vita penosa:
de giorno le mosche d’entorno spavalde,
mordendone valde,— che non ne don posa;
passa sta cosa — ed entra la notte:
le pulce son scorte — a dar lor beccata.
     Stanco lo giorno gíame a letto,
pensava l’affetto — nel letto posare;
ecco i pensieri, lá ov’era retto,
aveanme constretto — a non dormentare;
or al pensare, — volvendome entorno,
tollendome el sonno, — per molte fiata.
     Fatto lo giorno, ed io arcomenzava;
qual piú m’encalzava, — quella prendea;
non venía fatta como pensava,
adolorava — che nolla compia;
el dí se ne gía — ed ecco la notte
a darme le scorte — com’el’era usata.
     Compita l’una, ed eccote l’altra;
e questa falta — non pote fugire;
molte embrigate enseme m’ensalta,
pegio che malta — è ’l mio sufferire;
o falso desire, ed o’ m’hai menato,
ché si tribulato — passo mia stata?
     Cusí tribulato vengo a vecchieza,
perdo belleza — ed omne potere;
devento brutto, perdendo netteza,
grande splaceza — dá el mio vedere,
ed opo m’è gire — per forza a la morte
a prender le scorte — che dá en sua pagata.


Fra Iacopone. 4