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mazia un po’ orgogliosa delle sue istituzioni e per la larga cortesia dei suoi abitanti. Io andavo a Milano con lo stesso desiderio febbrile — i lettori mi perdonino il paragone — col quale Alfonso Daudet nei suoi giovani anni, andò per la prima volta a Parigi.

La mia sincera e vibrante anima d’artista provava un godimento ineffabile nel sapersi attesa; forte e fidente nel mio ingegno e nella bontà degli uomini, mi immaginavo, in quei giorni felici, che il mondo fosse da vendere e che io avessi potuto comprarlo. Chi non ha provato qualche simile momento di entusiasmo nella sua giovinezza?

Si dette il caso che poche ore prima del mio arrivo a Milano fosse passato da quella stazione un illustre personaggio (non mi ricordo con precisione chi fosse). Fatto sta che la trovai tutta addobbata, di panneggiamenti e di tappeti, tutta fragrante di fiori, tutta splendida di luce. La luce elettrica era per noi fiorentini una novità, nell'81; giacché oggi — se non altro — quattro o cinque strade della mia città vantano (a dir vero non troppo decorosamente) alcune piccole, timide e scialbe lampade ad arco: ma allora, le lampade ad arco non si sognavano neppure e i pacifici cittadini della vezzosa Firenze dovevano contentarsi dei giallicci e malinconici lampioni a gas. Il signor Trevisini mi aspettava. Mi condusse all’albergo Milano, facendo sostare per qualche minuto la carrozza sulla piazza del Duomo. Allora non c’erano né monumento a Vittorio Emanuele, né il carosello dei trams elettrici. La piazza era nuda, vastissima, silenziosa. Io non potrò mai dimenticare l’impressione magica di quella maravigliosa sinfonìa di bianco; quello tenero e dolce della neve che,