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La casa sì che era caratteristica e dava da pensare. Alta, nera, tetra, con uno di quei portoni verdastri, a centina, che — mi servo d’una felice espressione d’uno scrittore moderno — «par che raccontino a chi passa la tristezza delle grandi stanze buie, fredde, dove il sole non si ferma che per pochi minuti, quasi timoroso di perdervi la sua luce...»

Di questa casa che il martello spietato delle demolizioni ha raso al suolo, vedo ancora distintamente la camera ove nacqui, una camera ampia, malinconica, la cui unica finestra, coperta da due tendine di giaconetta ingiallita, dava sopra un cortiletto quadrangolare, dalle mura scortecciate, sudicie, trasudanti una perenne umidità. Cortile uggioso, buio, forato da un visibilio di finestre e di finestrini pieni di ragnatele e che pur si affaccia al memore pensiero insieme coi lussureggianti giardini di Boboli, di Pegli, dell’Acquasola, tutti fragranti di rose, tutti inondati di sole.

Avete mai pensato, lettori, che grande livellatore, che severo socialista sia il passato?

Le finestre del salottino e della cucina davano sull’orto del Manicomio1, un orto curioso, senza fiori, senz’alberi, spartito in piccoli quadrati irregolari dove, nel verno, nereggiavano i cavoli e i broccoli di rapa.

Gli urli delle ammalate, percosse non di rado dalla mano furiosa di qualche inserviente irascibile, giungevano fino a noi e mi producevano una strana impressione, malgrado la mia giovanissima età. Che


  1. Da molti anni la grande casa del dolore distende i suoi padiglioni a San Salvi, fuori dell’antica porta alla Croce.