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e una gran tavola coperta di un tappeto a fondo grigio con grosse rose color rubino formarono l’arredo della mia prima camera da ragazzina.

Ragazzina, sì, e non più bimba, malgrado i miei undici anni, la grossa treccia sciolta e il vestito corto. La statura precocemente slanciata, lo sguardo indagatore e profondo, e anche un po’ — perchè ostentare della falsa modestia? — la parola pronta, vivace, quasi sempre frutto d’una rapidissima riflessione, mi crescevano, a dir poco, tre anni; tanto che la mamma e il babbo parlavano con me dei loro affari, delle loro speranze e delle inevitabili delusioni. Sapevo quali erano le imprese riuscite, conoscevo i nomi dei corrispondenti del babbo, l’indole dei rapporti che ciascuno di essi aveva con lui, e arrischiavo già i miei timidi apprezzamenti. Né si creda che io fossi una di quelle donnine in miniatura, piccoli prodigi di perfezione, così incresciosi a chi ha la disgrazia di vederseli crescere accanto. Ero, a tempo e luogo, una figliolòna turbolenta e clamorosa, capace di fare entrare il mal di capo a chi mi stava vicina.

Quasi subito dopo il nostro arrivo fui messa all’Istituto Wulliet posto nella via Santi Pietro e Paolo che nel 1870 fu ribattezzata col nome di Via dell’Indipendenza.

La bella e spaziosa strada che fa capo alla chiesa dei Santi Pietro e Paolo esiste ancora ed ancora sorride al sole il vecchio palazzo Gragnani, dov’era a pianterreno l’Istituto. Ma in quelle sale, oggi, si aggirano, vivono, soffrono e godono altre persone. La cara scuola non c’è più: i buoni maestri, il signor Giuseppe e la signora Teresa sono morti; morti due figliuoli e il resto della