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Non sta a me il giudicare quale e quanta parte abbiano avuto la mia volontà e l’amore allo studio nella modesta fama di scrittrice che oggi va unita al mio nome. Ma è certo che molto io debbo all’ambiente in cui scorsero i miei anni giovanili, ai maestri e agli amici.

La casetta in via degli Elisi in cui andammo ad abitare era un vero gioiello: così nuova, ariosa, ed elegante! A me fu assegnata subito una bella cameretta la cui finestra dava... indovinino un un po’ i lettori! sopra un antico cimitero inglese, in cui da molti anni non si interrava più. Nulla di più poetico e — mi si perdoni l’epiteto in grazia dell’impressione immediata — di più ridente di quel giardino ombreggiato da alti cipressi, da verdi salici, tra le cui rame biancheggiavano le tombe.

Il tempio, in pietra, a cui si accedeva per mezzo di una larga gradinata corrosa dal tempo e tutta verde di edera, proteggeva i dormenti nella eterna pace, così come una buona madre vigila i suoi nati.

E fra l’edera, la pietra, i cipressi, e le tombe s’intrecciavano a profusione, pazzamente, in allacciamenti inestricabili, rose selvatiche, borraccine e certi fiori candidi, odorosissimi, che poeticamente vengono chiamati «i sospiri dei morti».

Un lettino di ferro con la coperta bianca fatta a crochet (una vera trina, opera paziente dell’Egle), una piccola toilette tutta bianca, il cassettone, il comodino