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vamo per riabbracciar l’Egle che aveva avuto un bel bambino (oh mio povero eroico Ettore!) e il simpatico Andrea, la cui bottega andava a vele gonfie ed era divenuta il convegno gradito di molte illustri individualità delle lettere e delle arti, fra le quali mi piace di citare Giuseppe Pieri, il poeta Emilio Frullani, Nicolò Barabino, Michele Amari, Luigi del Moro e molti altri il cui nome in questo momento mi sfugge.

Tutti i particolari di quel ritorno mi sono impressi nel pensiero a caratteri incancellabili. Rivedo la memore notte serena tutta inargentata dal plenilunio che profondeva le sue miriadi di diamanti sulle placide acque: rivedo la mamma, tutta involtata in un molle scialle di seta bianca, col bel viso rivolto a Genova; a Genova che l’aveva guarita dai suoi malucci nervosi e aveva ricondotto sulle sue guancie, un po’ appassite dall’umido e tetro soggiorno di via delle Ruote, il fiore della giovinezza...

Il sole emergente dalle acque azzurre, in mezzo a un corruscante incendio di raggi, le grida Livorno, Livorno! e i rozzi inviti alla discesa, urlati dai barcaioli, inviti vibranti d’italianità e risonanti — finalmente! — nella dolce favella toscana, tutto mi si confonde nel pensiero in una sola dolcissima indimenticabile armonia.

Oh poter tornare a gustare quelle fresche emozioni, quei puri compiacimenti! Oh poter tornar bambini!

Il progredire in ogni arte, in ogni industria, in ogni applicazione della scienza ci ha recato e ci reca — come dubitarne? — beni inestimabili, ma quante dolcezze ci ha tolto!