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XIV.

Il mio ritorno a Firenze.
La bottega di mio cognato.

(1865).

Non ho mai avuto una spiccata inclinazione per gli affari propriamente detti: o, per esser più sincera, debbo dire che ci ho sempre capito poco. E buon per me se la cosa fosse stata diversa! Buon per me se avessi cantato meno e calcolato di più! Oggi, forse, mi troverei a scrivere questo povero libro in una casetta mia, circondata da un orticello mio, e non già nella vecchia canonica di Montemurlo che il nuovo Pievano, Don Venceslao Tonini, ha messo gentilmente a mia disposizione.

Certo, l’ospitalità è larga e cortese: certo, intorno a questo tavolino ove sono intenta a raccogliere le fila sparte del meraviglioso tessuto che è una vita umana, s’affollano, pietosamente confortatrici, le ombre dei miei cari perduti, ospiti anch’essi di questa memore casa: ma io penso che laggiù, in quella bella Firenze immersa nella nebbia luminosa, mi aspetta ancora la solita esistenza affannata, l’ansia del domani, l’incertezza del guadagno, la certezza dolente di giorni tristi e solitarii... E mi domando col poeta:

O ciechi, il tanto affaticar che giova?

Riprendo il filo della narrazione. Non intendendo nulla in materia d’affari, m’è impossibile di rendermi conto per qual trafila di angoscie, di trepidazioni e di