Pagina:Idilli di Teocrito (Romagnoli).djvu/280

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NOTE II 233

Se la vediamo sotto questa luce, intendiamo e gustiamo meglio certi particolari della sua pittura: per esempio, il ricordo che ella fa, in un momento di tanta passione, della veste che indossò il giorno fatale, e della sarta che glie l’aveva tagliata. Da donna, ne convengo; ma, soprattutto, da donnetta: ad ogni modo, non da Saffo.

Però, un momento. A parte ogni giudizio di valore artistico, non posso nascondere che i dotti sono in grave dissenso circa la condizione sociale della nostra eroina. Verbigrazia, il Kiessling la crede una borghesuccia, l’Ahrens, benemerito per aver conciato il testo di Teocrito in guisa tale, che se l’autore tornasse al mondo, non lo riconoscerebbe neppur lui, la crede una plebea; l’Ameis (che in tedesco vuol dire formicola: è il celeberrimo commentatore d’Omero) la crede una pezzente; il Fritzsche la dice «honesta loco horta et generosa puella»; e il Casaubonus, infine, una «meretrix urbicaria»; che dunque, traducendo eufemisticamente, sarebbe donnetta. Ma non è mancato, ai nostri giorni, chi è insorto a cavalleresca difesa. Lo spirito di Don Chisciotte aleggia ancora nella provincia chiusa (all’intelligenza) della filologia classica.

Tutti, invece, mi sembra, hanno dimenticato Delfi, il bel garzone che ha fatto perder la testa a Simèta. Eppure, sebbene non appaia e non parli direttamente, è caratterizzato meglio lui che non la ragazza. Non s’è mai neppure accorto che Simèta esista; ma, al primo richiamo, corre a raccogliere quella manna caduta dal cielo. Si pianta a sedere sul letto, e con gli occhi fissi a terra, senza guardarla in viso, comincia il suo discorso, tutto intessuto di pastocchie e di millanterie. È tanto fanfarone, che trova modo d’incastrare una bravata in una similitudine:

               Simèta mia, davvero, tu m’hai prevenuto di quanto
               io superato ho ieri Filino garbato alla corsa.