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il baretti 15

Vera natura dei romanzi di Radiguet.

I romanzi di Radiguet, chi li stringa dappresso nè si lasci irretire nelle molte malizie con cui l’autore tenta sviare la nostra attenzione, rivelano una loro natura singolarmente affine a quella dei sogni. Dei sogni hanno sopra tutto la rapidità febbrile e stupita, volubile e densa. Ci guidano per i corridoi di un labirinto, spacciandoceli per le più comode e ragionevoli delle strade; ci trattengono sotto padiglioni di un’archittettura azzardosa e precaria, dove i materiali più diversi gravitano in equilibri quanto mai instabili, e ci assicurano che, nell’alzare quelle architetture, nessuna delle buone regole della statica fu dimenticata. Tu ti credevi di esserti attardato a seguire una lunga durata: ed erano visioni di un istante. Ti credevi di aver trattato a tu per tu con figure grandi al vero: e invece tutto l’affresco che li stava davanti poteva accogliersi sullo scudetto di una miniatura. Le immagini che, in un attimo, tra la palpebra calata e l’occhio annegato nel sonno, furono posate con la mossa furtiva e precisa con cui l’insetto depone le sue larve nelle rughe di una foglia — domani, a ricordarle, saran divenute una complicata cinematografia di paesaggi e di figure. Figure che si affacciavano con l'aria di non aver un impegno al mondo, di essere vacanti da ogni obbligo: e poi venivano ad infilare sbadatamente, uno dopo l’altro, i casi più spaiati, presentandoli come avvenimenti del tutto incatenati e logici e fatali.

Le Diable au corps è la storia di un ragazzo che inaugura con un adulterio la propria carriera amorosa. Per quali ragioni questo ragazzo sia venuto a raccontarci la sua storia, non riusciremo mai a capire; così come non sapremo mai perchè le figure dei nostri sogni si siano disancorate dai loro porti remoti e siano venute ad organare taluni ciechi e dimenticati frammenti della nostra vita in favole di una coerenza speciosa quanto dubbia. Ma il ragazzo del Diable an corps, ecco che ce lo troviamo davanti: e prima che gli abbiamo potuto chiedere i suoi perchè, egli è già entrato in argomento. Parla, naturalmente, in prima persona e così riesce a non dirci mai il proprio nome. Di fatto, egli non deve avere un nome: o, almeno, non si riesce ad immaginarne alcuno che abbia il potere di far sì ch’egli si volga e s’interessi comunque a noi. Forse non ha nemmeno dei precisi connotati. Di lui conosciamo solo dei particolari ambigui che possono significare molte cose, come possono anche non significarne alcuna: per esempio, che egli frequenta i Bars americani, che ha ottenuto dal padre di poter prendere dei cocktails anzi che delle granatine, che non dice mai dei calembours, che millanta un’esperienza che non possiede, che incute (sebbene ciò non sia mai «letto in modo esplicito) quasi della soggezione a suo padre: tanto che può, senza incorrere in alcun rimprovero, trascurare i propri studi e passare le sue notti fuor di casa. Ma anche le figure dei nostri sogni pareva, li per li, che avessero dei volti, magari dei volti famigliari, o il nostro volto medesimo; senonchè, a ripensarli durante la veglia, quei tratti cosi precisi e segnati sogliono accusarsi labili ed irrevocabili. Innocente e malefico, il ragazzo attraversa la propria avventura: nè si arriva a stabilire se sia il ragazzo che si fabbrica quella vicenda, ovvero la vicenda che si fabbrica quel protagonista: e quale dei due, ragazzo o vicenda, risulti più gratuito ed irresponsabile. Certo è che, nel più dei momenti, le cose ed i fatti di codesto romanzo, pur restando riconoscibili, perdono il loro significato abituale: e cosi noi ci troviamo di fronte a un adulterio consumato coi trasognamenti ostinati, riottosi e fatalisti che sogliono accompagnare, negli altri ragazzi, la dura età degli amori solitari. Di fronte al protagonista non si leva, secondo parrebbe più naturale, una donna già matura che, prima di rassegnarsi a dare il suo addio all’amore, voglia provare come il cinabro ardente e artificiale dei suoi labbri stinga sui freschi labbri di un fanciullo. Marthe è semplicemente una signorina per bene, un poco pupa malgrado le sue piccole complicazioni sentimentali, che son poi quelle di tutte le signorine per bene — e disposta a lasciarsi soggiogare, con una devozione senza limiti, da chi la sappia amare ed intimidire. Da fidanzata era divenuta pericolosamente amica del ragazzo: appena sposata, ne diviene l’amante. Il marito non dà noia perchè è alla guerra: e non mette scrupoli perchè e cosi beatamente cieco che sembra nato apposta per essere tradito. Del resto, noie o scrupoli di questa natura non esistono, nemmeno come astratte possibilità, nell’animo di Marthe. Marthe è destinata a diventare l’amante del ragazzo per una sorta di dolce e distratta fatalità ella lo incontra quando meno sarebbe opportuno, e lo ama quando meno sarebbe lecito. Si direbbe ch’ella prende marito solo per poter avere un amante e per poter insegnare all'inesperto amante i segreti d’amore che egli ancora non conosce. E tutto l’adulterio si atteggia come la vergine scoperta e celebrazione dell’amore, compiuta in uno «stato di natura», anteriore alla coscienza del peccato. Ma anche questa innocenza e naturalità è quella dei sogni: dove le cose più enormi prendono una loro esistenza prepotente e visibile, senza che sia concesso di vagliarle e giudicarle.

Le Bal du Comte d’Orgel è uno di quei fantastici e cinematografici inseguimenti ai quali assistiamo e partecipiamo spesso nel sogno. Gli inseguitori si affaticano a tutta possa senza che riescano mai ad aggiungersi a vicenda, per qualche misterioso peso che, facendo più affannoso il loro corso, li trattiene. Però le tre persone che si inseguono in questo romanzo, sogliono praticamente, nella vita e nella maggior parte degli altri romanzi, incontrarsi, in un modo o nell altro, e più o meno legittimamente. Sono il marito, Anne d’Orgel; la moglie, Mahaut; e l’aspirante alla moglie, Francois de Séryeuse. Ma sotto i romanzi di Radiguet soffia un demone voglioso di ricomporre, in una sua feerica maniera, i fatti di tutti i giorni: e pertanto impedisce che essi possano mai prendere la piega più prevedibile. Anne d’Orgel è soltanto un uomo di mondo: il prodotto forse più paradossale della moderna specificazione del lavoro: l’uomo che ha, come precisa funzione, il compito di dimostrare che ad un certo punto della scala sociale, c’è un bel mondo, un’alta società, la quale non ha altro scopo che quello di vivere con un raffinatissimo stile, e di celebrare cerimoniosamente i suoi amabili riti. Mahaut è la donna incapace di peccare perchè non sa nemmeno che esista il peccato (Radiguet sostiene però che Mahaut è virtuosa). François «le Séryeuse è un ragazzo tra disincantato (e non si sa perchè) e schifiltoso della vita; il quale non riesce mai a trasformare i propri desideri in principii d’azione. E’ come un giocatore che abbia in mano le carte più propizie e sempre tiri sul tavolo gli scarti. François ama Mahaut e ne è subito, o quasi, corrisposto; ma l’amore rimane in entrambi una cosa implicita e muta, sebbene all’ombra dei sublimi offici in cui il marito è assorto, assai facilmente l’adulterio allignerebbe. Tutto il romanzo poggia sull’equilibrio falso delle inclinazioni del marito, della moglie e dell' amante: inclinazioni che, pur cospirando e favorendosi a vicenda, non vengono mai a coincidere. Potrebbe riuscire, chi consideri solo l’astratto gioco delle forze che vi figurano, un dramma quasi eccolliano di mutue incomprensioni; è invece la favoletta di due piccole astinenze che non sublimano mai ad una dolorosa e consapevole rinuncia.

In Francia si è creduto sul serio ai paradisi di castità dipinti da Radiguet: paradisi dove si peccherebbe con innocenza; intorno a Radiguet, sono potute nascere (tra Henry Massis e Jacques Rivière) delle polemiche sui «buoni e cattivi sentimenti». Ma se i personaggi di Radiguet non hanno effettualmente altra vita che quella dei fantasmi di un sogno, essi debbono considerarsi come degli irresponsabili: ed ogni tentativo di giudicarli risulterà dunque sprecato e fuor di luogo. Che se si voglia prendere in parola l’autore il quale non si proponeva certo di raccontare dei sogni ed anzi, a proposito del Bal du Comte d’Orgel, dichiarava esplicitamente di avere aspirato a scrivere un «roman d’amour chaste, aussi scabreux que le roman le moins chaste» — allora Le bal du Comte d’Orgel e, più ancora, Le Diable au corps potrebbero far pensare a paradisi terrestri realizzati su un palcoscenico di tabarin. Adamo ed Èva che semplicemente avanzassero nudi, l’uno accanto all’altra, senza vergognarsene — in un tabarin, non desterebbero alcuna meraviglia. Allora si parla di pudore e si bendano gli occhi di Adamo e di Eva; poi si fanno avanzare nudi e si osserva quanto essi siano casti e contegnosi..

Notavamo dianzi che, se i romanzi di Radiguet rassomigliano a sogni, ciò avviene malgrado l’autore. Egli tenta infatti di fornire ai suoi racconti, un passaporto che valga ad ingranarli nella più limpida ed accertabile realtà della veglia: nella realtà in cui tutti viviamo ad occhi aperti, sotto la luce del sole. E questo tentativo costituisce, forse, la più imperiosa e tipica movenza di Radiguet: quella su cui egli imposta i suoi romanzi. I quali cominciano entrambi con una giustificazione, di cui il senso è fondamentalmente questo: «lettore, se tu ti stupirai, se griderai all’inverosimile, la colpa sarà tutta tua: l'autore, per parte sua non ti ha dato che la realtà, la pura realtà, nient’altro che la realtà». Così il protagonista del Diable au corps entra in scena con le seguenti riflessioni: «Je vais encourir bien de reproches. Mais qu’y puis-je? Est-ce ma faute si j'eus douze ans quelques mais avant la declaration de la guerre? Sans doute, les troubles qui me vinrent de rette période éxtraordinaire furent d’une sorte qu’on n’eprouve jamais à cet âge». E le Bal du Comte d’Orgel si apre con queste battute: «Les mouvements d'un coeur comme celui de la comtesse d’Orgel sout-ils surannes! Un tel mélange du devoir et de la mollesse semblera, peut-être, de nos jours, incroyable...» Se poi volessimo scrivere, à la manière de Radiguet, la biografia di Radiguet, cioè quella che abbiamo altra volta definita il romanzo dei sui romanzi, anche noi dovremmo cominciare: «Potrà sorprendervi il caso di quest’autore ragazzo. Ma che colpa aveva egli se, ragazzo, e non mostruoso nè differente dai suoi coetanei, si trovava essere uno scrittore maturo?».

Autenticato, in una maniera così discreta, all’apparenza, e candida, tutto quanto gli capiterà di narrarci. Radiguet crede di essersi, una volta per tutte, dispensato dal far ricorso e dal cercar controllo nella esperienza volgare e comune, la quale tuttavia suole costituire l’origine obbligatorio di ogni romanzo psicologico. Con quelle poche parole iniziali, Radiguet crede di aver determinato un coefficiente di credibilità per tutte le sue affermazioni. E crede, più ancora, di avere, con un abile tiro, compromessa la realtà con i suoi romanzi senza che, per contro, i suoi romanzi siano stati compromessi a seguire la piatta e monotona realtà. E allora egli comincia ad operare un suo melodico ed ostinato scambio tra l’essenza delle cose ed i loro più insulsi accidenti e a disporre siffatti accidenti in una tale luce che essi sembrino racchiudere la quintessenza delle cose. In ciò consiste il procedimento costruttivo o, come si dice, la tecnica dei suoi romanzi. L’autore si rifiuta di attendere, con la casta e devota pazienza dei romanzieri classici, che i suoi personaggi si esprimano in una parola o in un gesto riassuntivo; nè si trattiene a contemplare i suoi paesaggi sin che essi divengano, quasi, il simbolo naturalistico dei fatti di cui sono teatro, il terreno su cui marciano gli eroi. Egli prepara invece, per i suoi personaggi, dei sapienti trabocchetti; e quando inavvertitamente costoro rivelino qualche loro tic od escano in qualcuna di quelle parole inutili che poi si vorrebbe non aver mai dette — allora li coglie a tradimento facendo poi intendere a noi, sotto sotto, che quel moto, quella parola costituiscono proprio la tipica rivelazione della loro anima fonda. Talvolta sembrerebbe perfino che, tra Radiguet ed i suoi personaggi sia corsa un’intesa segreta: Radiguet farà il falso morto quand’essi vivono più intensamente e, in compenso, eglino si faranno sorprendere nelle loro ore più attonite e grottesche e si lasceranno portare alla ribalta con l’aria stupida, con il dolce ed assurdo sorriso che hanno i ginnasti dei circhi equestri quando eseguono certe loro sensazionali piroette. Le maturazioni lente che, nella vita, sogliono dar peso ad un gesto, facendo che in esso gesto confluisca e risolva e si riassuma tutta una storia di attese dimesse e segrete, di moti dispersi ed inutili, di slanci vani e rientrati — sono qui interrotte arbitrariamente, in un punto qualunque, e presentate in una prospettiva che ne sfalsa il valore. I punti morti sono proprio quelli dove più piovono i colpi, e sui luoghi dì minor resistenza vengono poggiate le pietre angolari.

Nel trattare la propria realtà interiore, Amiel si era fissata una divisa che potrebbe valere come consiglio per chiunque voglia trattare, con la dovuta riverenza, realtà interiori, proprie od altrui: «Si un oiseau chante dans ta feuillée, ne t’approche pas vite pour l’apprivoiser». Questa non sarà mai la divisa di Radiguet. A quell’uccello, egli vorrà subito insegnare qualche canzoncina di grande successo. È lo nasconderà negli angoli di casa, perchè ne esca, al momento opportuno, per cinguettarci una piccola frase che serva al suo padrone. Per esempio c’è, nel Diable au corps, un punto in cui l’autore par che dia, in pieno abbandono, un largo ed affettuoso esito alle memorie infantili: si pensa ad un arcipelago in fiore che emerga sul mare tranquillo, nelle roride e musicali nebbie del mattino. Il ragazzo progetta di andare a rifugiarsi con la sua amante in un paese dove si coltivano le rose. Di là suole partire ogni giorno, nella bella stagione, un treno carico, di ceste di rose: «J’avais, toute mon enfance, attendu parler de ce mystérieux train de roses qui passe d'une heure oû les enfants dorment». In guardia: questo apparente abbandono, questo rapito ascoltare ingenui ricordi, non era se non un pretesto perchè il ragazzo potesse introdursi a riflettere sulla natura effimera del suo amore, fragile e passeggero quanto la stagione delle rose.

In difetto di un peso intrinseco e specifico delle cose osservate, di un loro murmure interiore, che solleverebbe la notazione al valore di una testimonianza, Radiguet si prodiga a fabbricare delle scorrevoli e ingegnose macchinette logiche da cui quelle notazioni escano dimostrate a fil di ragione. E, nel momento in cui leggiamo, ci sembra di dover dire di si a Radiguet, perchè logicamente non gli possiamo dir di no; ma, alla fine, sentiamo che egli non ci ha persuasi. E volgendoci per riassumere tutti i consensi che, alla spicciolata, ci erano stati estorti, dobbiamo constatare che un’adesione completa e cordiale alla vicenda ed ai personaggi, proprio ci riesce impossibile di darla. Il candido lettore di poc’anzi, che di ogni cosa si era veduto produrre la ragion sufficiente nel più loico dei mondi, adesso si inalbera e vuole anche la ragion necessaria, e si domanda se di ragioni come quelle addotte da Radiguet non se ne potrebbero, per avventura, trovare quante si vogliano, altrettanto probanti in apparenza e altrettanto insoddisfacenti in sostanza. E l'averci detto, in capo a codesti romanzi, quasi a modo di epigrafe, che tutto quanto incontreremo è cosa vera e naturale, ci pare oramai, da parte dell’autore, un piccola soperchieria, quando non sia, senz’altro, una sorniona, quanto inutile, precauzione.

Inutile precauzione, davvero! Perchè poi la realtà irrompe sul serio in questi racconti, e li dissolve, e spegne i fuochi della ribalta a cui si erano affacciati fatti e figure, e cancella le figure e smentisce i fatti. Le Diable au corps termina con la morte di Marthe, l’amante: ella si spegne dando alla luce il figlio adultero del protagonista e toglie così ogni possibilità di controllare l’avventura; tanto è vero che questo figlio sarà riconosciuto legittimo dall’ignaro maritodi Marthe. E il rigido triangolo coniugale che, per tutto il Bal du Comte d’Orgel aveva resistito ad ogni forza che tentasse di deformarlo e di accostare due qualunque dei suoi vertici, si spezza se, per un momento. Anne d’ Orgel, il marito si dimentica di essere soltanto un perfetto uomo di mondo e, sgarrando dalla sua rigorosa linea di vita, commette, come qualunque altro uomo, una solennissima gaffe.

Scioglimenti di questo genere potrebbero paragonarsi alla movenza con cui un Giraudoux pone termine alla sua Suzanne et le Pacifique. Tutti ricordano come l’eroina di quel romanzo, dopo di averci portati seco a soggiornare su una fiabesca e sperduta isola del Pacifico, dove pareva che le cose avessero smarrite le loro distanze e rapporti normali, per andarsi a baciare tutte, l’una con l’altra, in rime ed assonanze maliziose ed impensate — riapproda in terra di Francia e incontra, prima di ogni altra persona, il controllore dei pesi e misure, come a significare che tutti i giuochi hanno il loro termine e che più bello è quel giuoco che si sa far durare poco. Ma, in questo caso, era proprio Giraudoux in persona, di sua iniziativa, che scioglieva l’incanto e pronunziava il suo: «jam claudite rivos». Nei romanzi di cui discorriamo, invece, la realtà entra come da una valvola che, dopo di aver troppo resistito, alfine ceda: e questo ingresso rappresenta uno spontaneo riordinarsi delle cose nelle loro gerarchie ordinarie, un restituirsi che esse facciano a valori più abituali ed umani.

Non bisogna dimenticare che Radiguet appartiene ad un gruppo di artisti che operano in consapevole solidarietà e che, verosimilmente, riconoscono come teorico della scuola Jean Cocteau. Il quale scrivendo a proposito della propria arte che «chaque pas trompe la chute» e, a propoposito dell’arte di Picasso, che «le dessinateur fera oeuvre vivante... sentant sa ligne en danger de mort d’un bout à l’autre du parcours». — fissava probabilmente uno dei canoni della scuola. I romanzi di Radiguet sono, dicevamo, sogni tramati tra un assopirsi della realtà, dolcemente narcotizzata, ed un suo brusco ridestarsi: ora, condurli tanto in lungo, e far che in ogni punto essi ammicchino con l’assopita realtà, senza che mai la destino intera: questo è il pericolo che Radiguet di continuo elude, sviluppando l’opera sua. C’è poi un altro pericolo; ma è di natura più strettamente letteraria. Storicamente Radiguet ed i suoi amici tendono a situarsi su una linea di sviluppo del simbolismo, lungo la quale le conquiste di audacia e di rendimento espressivo a cui il simbolismo era giunto mediante esperienze rare, remote e vertiginose — vengono addomesticate a tradurre cose e pensieri più familiari. Le parole stesse senza che debbano rinunzare alla loro intensità ed alla loro musica pregnante e carica di allusioni, saranno cercate in un vocabolario più cotidiano ed affabile. Il gran vanto di questi poeti è di poter scrivere promenades dove Mallarmé notava divagations. Però se queste promenades comportano le stesse visuali e prospettive, sebbene contemplate in maniera più confidente, che le divagations — bisognerà pure che, con tutta la loro disinvoltura, rasentino gli stessi abissi: ed anche in questo senso «chaque pas frompe la chute».

Ma, infine, se vogliamo capire l’attitudine spirituale per cui Radiguet si illude, e tenta illuderci, che un furbesco ammiccamento possa esprimere assai più cose che un limpido sguardo — che una fornicazione incompleta con la realtà possa riuscire più feconda di un coraggioso e pieno commercio con le cose di questo mondo, bisognerà che ci richiamiamo a certo costume che gode assai favore al tempo nostro. E’ quel costume che potrebbesi, forse, chiamare intelligentismo, perchè rappresenta una morbida degenerazione dell’intelligenza, allo stesso modo come il sensibilismo era una corruzione della sensibilità. E consiste nel nobilitare e nello spacciare quali scoperte dell’intelligenza più educata, evoluta e cosciente, le sterili idiosincrasie, gli amorfi e gratuiti dati della sensualità. Per questa strada, si giunge a prendere sul serio i nostri divertimenti più inutili ed a valorizzare, come espressioni definitive e lampanti, quelle cifre oscure, quelle illuminazioni antelucane con cui, nel quasi inconscio, avevamo provvisoriamente battezzati taluni fatti che non eravamo riusciti a vedere in perfetta chiarezza. E, per esempio, Cocteau confessa che, a un dato momento del suo sviluppo spirituale, egli si era persuaso che tutti dovessero intenderlo quando, per definire certa tarantella di Chopin, egli diceva: «La victorie du Prince Rataplan». Non è un caso che, proprio in questi tempi, sia venuto un Freud a permetterci di credere ai nostri sogni come a profonde rivelazioni della nostra vera personalità — e che Diaghileff, con i suoi balletti, ci aiuti ad indulgere alle nostre fantasie, facendo del mimo che si muove sulle musiche di Igor Strawinski, l’interprete autorizzato di tante patetiche nostalgie e di tante aspirazioni metafisiche, che non sapremmo affrontare direttamente, nella loro scoraggiante nudità.

I romanzi di Radiguet nascono in questo clima: console Freud o console Diaghileff, o qualche altro ancora che non cercheremo chi sia. E rassomigliano ai sogni, ma anche rassomigliano ai balletti. Segnatamente per il potere con cui riescono a riassumere in qualche sua attitudine Secondaria, fuggevole e dimenticata, il più autentico e succoso carattere di uno «stile»: e, insinuando opportunamente quell’attitudine, quasi si trattasse soltanto di una trovata decorativa, risuscitano in noi le emozioni che avevamo provate di fronte a manifestazioni complete di quello stile. Cosi poteva accadorci, poniamo, di ritrovare d’improvviso, in un balletto, le armonie delle ceramiche greche o le pompose sagome e le gale e i pennacchi del «Louis XIV». Non diversamente, Radiguet sa trasportarci, di colpo e per un attimo — sempre salvandosi dal pericolo del «pastiche» — tra le feste galanti di Dafni e Cloe; o sa precisare la gentilezza infantile di un amore tra due adolescenti, riassumendone tutte le ghiottonerie e le confidenziali espansioni con un accenno di natura morta tutta creme e biscotti e fior di latte. In questo senso, potremmo anche attribuire qualche legittimità agli elenchi di fonti che taluno ha voluto stabilire per riconoscere le vere origini della ispirazione di Radiguet. Si parli pure del «Dafni e Cloe» e della «Princesse de Clèves» e dell’ Adolphe»; purché non ci si guasti il gusto delizioso degli improvvisi richiami a celebri opere letterarie, che le pagine dei due romanzi non si sforzano di celare, ed anzi graziosamente offrono in vista. E se ritroveremo le scoperte psicologiche di Proust, spogliate di quella sospesa e cauta musica tra cui erano venute primamente in luce, meglio che a delle affinità tra Radiguet e Proust o ad uno sfruttamento di Proust da parte di Radiguet, penseremo all’abilità di un metteur en scène di cinematografo che per far girare, poniamo, un film dei Nibelunghi, riduca il patetico e melodioso incendio del colle delle Walkyrie ad un trucco di lampadine rosse, fiammelle d’alcool, stelle filanti e carta velina mosse dal soffio di ventilatori nascosti.

Non si presume di rivelare segreti di atélier, se si dice che un artista nell’operare è guidato assai imperiosamente da influenze, in apparenza, grosse ed esteriori, che su di lui esercitino altri artisti. E crediamo che, più d’una volta, il suono di certe frasi e perfino la materiale disposizione tipografica di certe pagine abbiano agito come modelli decisivi. Ora, anche a questo riguardo, il vero punto di partenza di Radiguet è Cocteau. Cocteau scatta invariabilmente da tutte le scatole a sorpresa che Radiguet venga presentandoci. E tutte le osservazioni che siamo venuti fin qui raccogliendo intorno a Radiguet, ci riportano a Cocteau. E le lacune che possono imbarazzarci quando pensiamo a Radiguet, si colmano tenendo presente l’opera e la figura e gli atteggiamenti polemici di Cocteau. Tanto vale, dunque, rimandare decisamente a Cocteau il nostro discorso.

Giacomo Debenedetti.