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56 il baretti

Trascorre gli anni di fanciullezza a Monaco, a Vienna, a Berlino. Viaggia. Frequenta, per un certo tempo, a Parigi, i cenacoli del simbolismo. Diviene amico e segretario di Rodin. Visita la Russia, nelle cui vastità immense affina le sue doti percettive già così singolari, e l’Italia che gl’inspira le più luminose canzoni.

La produzione che Rilke ha al suo attivo è considerevole. Si tratta, in complesso, contando anche i «Sonetti ad Orfeo», apparsi recentemente, di una decina di volumi di lirica, oltre le novelle e i saggi di critica d’arte.

Se si vuole, Rilke è un crepuscolare. Ma non nel significato che il Borgese ha impresso al vocabolo. Crepuscolari, in Italia, sono, ognun sa, quei letterati del postdannunzianesimo, che idoleggiano una poesia del tutto morbosa, odorata di garze intrise e di sornacchi sanguinolenti. Crepuscolare, Rilke, poi che la sua sensibilità sembra essersi aguzzata per un diuturno spiar i minimi rumori, i più impercettibili strepiti delle cose nel tempo che comincia a stendersi sopra d’esse il mantello della tenebra. Allorquando esse cominciano a fiatare e a viver la lor vita verace.

«Quanto più il giorno s’approssima, con gestì
sempre più stanchi, al vespro,
tanto più tu ti disveli, o Signore.
su, in alto, da tutti gli émbrici».

Il Poeta è perennemente in ascolto: si potrebbe applicargli la parola di Euripide: «divina è l’ombra».

Esiste di Rilke un ritratto, opera di Oscar Zwintscher, a Dresda, che lo coglie dinanzi ad una finestra già opacata dalla sera, con grandi occhi aperti, in attitudine di origliare. E’ questo il gesto che informa di più la sua lirica. Recline profondamente sul polso delle cose, egli giunge ad unificarsi con esse, a prestar loro il proprio respiro, ad udirne le musiche più segrete:

«Se ti diporti fuori, lungo il chiuso,
s'è divietato scorgere le gèmmee
rose stellanti i viali del giardino:

ma, nella tua fede profonda,
puoi sentirle, si come
fanciulle che s’avvicinino.

Elle avanzano a coppie,
recingendosi ai fianchi:
e le vermiglie cantano sole;
poi prendono a melodiare le bianche,
lievi, sommesse, con i lor profumi».

Nell’intenso perscrutare il regno delle tenebra, nel frugarlo in ogni senso, permearlo in ogni flessura, per registrarne nell’anima ogni vibrazione più tenue. Rilke diviene uno strumento mirabile, una eolia arpa sospesa:

«Quando gli orologi
bruiscono prossimi, come
bruiscono nel mio proprio cuore,
e le cose, con tremule
voci, si domandano:
— Sei là? —
Allora io non son colui
che si ridesta col mattino,
e la Notte mi dona d’un nome
cui niuno di quelli
che ragionarono meco nel giorno
ascolterebbe senza terrore.

Ogni porta dell’anima s’apre.
La puerizia m’è dinnanzi.
Molti, che anzi me vissero,
e lottarono lungi,
s’ordirono in me.

Allora, converso
a te, dico piano:
— Soffersi:
m’odi? —

E qualcuno, che m’è ignoto,
fa eco e rimurmura...».

Non è forse nella breve lirica seguente il brivido come d’un mistero impenetrabile e desolato?

«Una strada abbagliante
che va a smarrirsi nella luce,
grevità del sole sui vigneti,
e d’un tratto, come in un sogno,
una porta,
scavata in pareti invisibili.

Il legno dell’usciale
è da gran tempo consunto:
tuttavia, pervicaci,
durano sulla cèntina
l’armi e il diadema principesco.

E se tu entri, sei ospite.
— Di chi?
E riguardi, rabbrividendo,
sul paese selvaggio...».

Anche quando il Rilke descrive un fatto svolgentesi, un reale in atto, come ne le «Clarisse»; osservate come tra il Poeta e lo spettacolo, o, nel caso tra il poema e l' antifona, interceda quasi un velame. Traverso questo velame, le linee i suoni i colori son più presagiti congetturati supposti, che riprodotti direttamente. La voce delle clarisse che cantano si trasforma in una moltitudine di volti proprio per il processo medesimo per cui ad un cieco, l’eloquio d’una persona si trasmuta nelle immaginate fattezze di questa:

«Fu il mio sangue
che sussurrò, d’un tratto, più sonoro!
O fùr le clarisse che entrarono
dietro la grata del coro?

Esse non han per anco incominciato.
Forse, non son per anco quivi, desse
che niuno mai vide,
se non le madonne dei tre altari

Ecco che, impreciso, lontanissimo,
giunge un suono:
e vanisce.
Poi, di nuovo, scalpiccio,

trepestìo, come
d’un recedere e d’un genuflettersi;
la porta cigola sui cardini,
sbarrandosi dietro qualcuno

che giunse o che s’allontanò;
un po’ d’albore trema
sulle làmpade, come un cenno.

Ora cantano.
Cantano come da tempo,
con le lor povere bocche
stanche, avvinte al lungo inno,
strascicate da pausa a pausa;

cantano come da lunghi anni,
anni che furono senza
fine: cantano come
con quello che fu soffocato,
cantano come
con le lor chiome ...

Le lor voci hanno lievi
volti indistinti, quali
esse, nel giorno novissimo,
solleveran dai sepolcri.
E d’improvviso, su tutte,
unica, emerge, chiara, in alto,
una pallida lieve esigua voce;
e si tien, come il cavo
d’una conchiglia,
poggiata all’orecchio di Dio...».

Temperamenti di così esasperata interiorità, perfezionati dalla consuetudine con le melodie più sottili, percepiscono senza difficoltà quel fangoso «suono dominante che timbra di sè tutte le musiche versicolari della terra» di cui parla Ludovico Tieck.

E cominciano in tal modo, per Rilke, le ansiose domande. Il «Libro d’oro» e il «Libro delle imagini» documentano la ricerca d’una risposta. «Saper ascoltare, dice il Poeta, è riscattarsi. Io ascolto, e le lontananze mi disvelan cose che non posso tollerare senza amico, ne amare senza sorella . Breve è quello che noi combattiamo, grande, ciò che si avversa».

«Rattieniti, o mia più profonda
vita,
dal palese ascoltare e stupirti:
tu sai quello che voglia il Vento, prima
che le pioppe si crollino.
E se, a volte, il silenzio ti parlasse,
lascia che ti trionfi.
Cedi a ogni soffio:
desso t'amerà cullandoti.
Tu, sii vasta più sempre, anima mia!
E distenditi, come un solenne
vestimento, sulle cose che pensano».

«E perciò lasciamoci sopravvincere da quello che è sempre più grande. Impariamo dalle cose che umilmente raccolgono e rispecchiano in sè ciò che è più grande; dalle cose del crepuscolo, dalle cose che la parola dell'uomo difforma ed abbassa, chiamandole magari «casa» ed «albero». I Poeti, come i bimbi come le fanciulle, odon soli le cose cantare».

Rilke, rendendosi sempre più affine alle cose, si accosta sempre più al Senza nome. Il suo amore scopre, meravigliato, presso e lungi, l’anima propria e l'anima di Dio commiste.

Sorgono così gli «Engellieder» i «Canti degli angeli», le poesie forse più stupende, nella loro disadorna semplicità, di cui la modernissima poesia tedesca possa vantarsi.

«Da poi che il mio angelo non ha più officio
(alcuno,
da poi che il mio rude giorno l'espluse,
spesso inclina il nostalgico volto,
e il ciel gli divien grave.

Ei vorrebbe tutt'ora, in giornate di duolo,
sulla distesa sfarfugliante dei boschi,
recar le mie pallide preci
al paese dei sèrafi.

Ivi egli addusse il mio futile pianto,
e i miei crucci di bimbo
crebber ivi ad imagine di boschetti
ch'ora sovra il suo capo
sussurrano...».

«Se un giorno, nel paese della Vita.
nel rombazzo
delle fiere
e delle piazze,
io m’oblii del fiorito
pallore di mia fanciullezza;
m’oblii del mio custode angelo,
della sua veste e della sua dolcezza,
delle sue mani che pregano
e benedicono;

nei sogni più segreti,
pur sempre,
serberò l'imagine
delle sue ali piegate
dietro l'òmero, simili
ad un cipresso bianco...».

Werfel.


Franz Werfel è anch’egli un mistico.

La sua concezione dei mezzi per «compiersi celestialmente», per arrivare cioè allo stato di grazia religioso in cui il nascimento della poesia si può dir si confonda con l'atto del respiro medesimo, è però sensibilmente in divario con quella di Rilke. Questi ha ricorso alla sola contemplazione, a quella estasi che è liminare alla comprensione perfetta in cui s'attua la beatitudine trascendente: Werfel invece inscrive in testa alla propria opera le parole che Kundry pronuncia, genuflessa a detergere i piedi di Parcival: «esser ligia, servire...». Rilke aspira a dissolversi in una inattività contemplativa: Werfel pensa che è necessario «bruttarsi le mani di fimo» per esser degni di stendere sul mondo che aggela la coltre tepida d’una pietà consapevole al operante.

Egli ci conduce nel cuore della riotta espressionistica. L'espressionismo, per dirla con uno dei suoi teorici, è «il balzo dalla fisica alla metafisica, l'urgere delle forze creative verso ogni forma del mondo esteriore: il lor tumulto e la lor dissoluzione, attraverso l’elemento dionisiaco, nell'elemento amorfo». Esso appare tuttavia come una specie di neo-romanticismo, a tinta però decisamente attivistica.

La poesia è concepita come un arcobalestro sempre teso: ciò che non s'avvalla dai vertici partecipe dell'incandescenza, non vien preso in considerazione veruna. Non vale se non ciò che ha potenza di suscitare il grido. Bisogna ben dire che alcuni artisti non germanici avean, già tempo prima della formulazione di principi consimili, disgombrato e percorso le vie della contrada espressionistica. L'arte dello Seriàbine delle sonate ultime non è forse indiscutibilmente un inconsapevole portato dell'espressionismo?

Comunque, non ci sembra che, in paese tedesco, esso abbia dato, per ciò che riguarda la lirica, i frutti più sàpidi. Le poesie di Giogio Heim, e di Giorgio Trakl sono forse quanto di meglio gli si possa attribuire.

La Helmathkunst.


I poemi di guerra sono copiosissimi: una vera e propria alluvione: assai poco, per altro, v’è, che possegga una importanza reale. Perciò noi ce ne passeremo leggermente; agevoli a noverarsi sarebbero d'altronde le ragioni di codesta scarsità qualitativa.

Una tendenza che appare in questi anni or è poco trascorsi, e che perdura tuttavia, è quella d’un allontanamento sempre maggiore del fulcro berlinese; e una seguace insurrezione dei vari fumacchi di poesia provinciale.

E' la così detta «Heimathkunst», la cui manifestazione peculiare è costituita dalla ballata popolareggiante; e che ha, di certo, un significato molto notevole per il momento in cui esplica la propria azione. Sembra che tutta una stirpe voglia ritemprarsi alle linfe più schiettamente nazionali, per attingere, come Sigfrido con l’immergersi nel portentoso sangue di Fafnir, la forza e la volontà bisognevoli a sormontare un disastro cui, dopo quello della guerra trentenne, gli annali alemanni non registrarono mai l'eguale.

Elio Gianturco.


NOTE


Il pittore Tosi.

Arturo Tosi, come avverte Ugo Bernasconi nella prefazione del volumetto dedicato testé alla sua arte (ed. Schèuwiller - Milano) vive fuori dalle più recenti smanie impressionistiche e neoclassiche e, figliolo dell'impressionismo, ma educato alla scuola italiana del Cremona, del Bianchi, del Gola e del Bazzaro, coltiva dei suoi più vicini maestri l'amore del buon disegno, oggimai rarissimo specie tra i pittori di paese, e tende con una forza infallibile alla intensità del tono e alla robustezza del chiaroscuro, che son poi caratteristiche di schietta tradizione lombarda.

Soltanto, pare a noi che il non essersi invescato nelle infatuazioni impressionistiche e neoclassicistiche non debba far meraviglia in Tosi che, toscano sarebbe stato macchiaiolo e, lombardo, seguita quella maniera più larga e sinteticamente chiaroscurale ch'è propria della sua regione.

Tra la pittura toscana e quella lombarda dell'ultimo ottocento esistette una differenza di specie diremmo quasi sociale attraverso il soggetto e la sua trattazione. I toscani, Fattori, Signorini, Lega, si tennero a tipi popolari e modesti, a scene di casalinga intimità, dipingendo con un aderentissimo senso realistico della natura; i lombardi, come Cremona, o Ranzoni, o Gola, conobbero, della pittura, una signorilità più mondana e anche più letteraria. Nei soggetti amorosi del Cremona e, per es., nel Falconiere, quell’effusione di colori che poi si confondono tende a un’espressione drammatica, a descrivere un patos.

Su tali presupposti, che avevano una base nel colore, è naturale che l’impressionismo — chiamiamolo cosi — lombardo, potesse resistere più a lungo del macchiaiolismo toscano. Nella sua parte letteraria, ben commista e armonizzata di elementi pittorici, trova già una parte di sfogo e d’avvenire quel più complesso assieme d’elementi di cui si comporrà più tardi il generale ritorno al gusto della grande composizione. Ed è naturale che un uomo di cinquantatrè anni, come Tosi, vi si possa sentire ancora abbastanza giovine e sicuro.

Ci sovviene di aver incontrato Tosi a Milano, verso il 1916, al primo piano del caffè Campari. Era insieme a lui Carrà, uomo di parola facile e cordiale, che figurava naturalmente, come un personaggio di primo piano, anche perchè seguitava a bruciare in lui quella passione polemica ereditata dal futurismo, che si svolgeva allora nel primitivismo della Carrozzella e anche oggi caratterizza le sua personalità spirituale. Ma Carrà aderiva con fierezza alla pacata intelligenza di Tosi, e più a quella del vegliardo scultore Riccardo Ripamonti, gente che poteva viver fuori dell’intellettualismo artistico mentre oggi si tratta di vincerlo e di scavalcarlo. Cinquanta o trentanni fa gli artisti posavano ancora tanta ricchezza d’eredità artistica quanta ne occorreva per vivere alla buona e conservavano ancora d’istinto certe doti che converrebbe chiamar cittadine, come l’abile condotta del disegno.

(r. f.)


Scenografia.

La messinscena deve realizzare una maggiore unità del dramma con lo spettatore; fuggendo gli effetti aneddotici e le ricostruzioni pittoresche, per cui vien fatto talvolta di scorgere una diecina di scagnozzi timorosi andarsene in processione per il fondo mentre si svolge in primo piano una scena drammatica.

I più grandi effetti si ottengono con i più semplici mezzi. A che vale nell’atto della chiesa, del «Faust», la ricerca della profondità di grandi navate se come al Kunstler Theater, il plinto di una colonna in ombra basta a dare l’illusione di una cattedrale?

La scena non è una pittura di quadro: è una decorazione, in cui secondo le regole di quest’arte sono combinati i tre ritmi: della parola del gesto del movimento.

Un bosco per Victor Hugo o per Théodor de Bainville esigono tecniche differenti: Corot darà la scena a Bainville e Delacroix a Victor Hugo.

(e. p.).


IL BARETTI


in meno di un anno di vita ha conquistato il suo stile e il suo posto nella cultura italiana contemporanea. Senza annunci e programmi strepitosi ha dimostrato che i giovani italiani del dopo-guerra sono capaci di creare una rivista di pensiero e di letteratura europea senza provincialismi e senza retorica.

I lettori hanno il dovere di aiutarci, di darci i mezzi per fare del Baretti una grande rivista.

Ogni abbonato deve trovarci un nuovo abbonato. Alcune centinaia di amici che si sono dimenticati di pagare l’abbonamento devono affrettarsi a mandarcelo altrimenti non riceveranno più il prossimo numero. Chi vuol fare propaganda ci richieda copie di saggio.

Nei prossimi numeri l’inchiesta sull’idealismo e una serie di saggi sulla cultura regionale italiana.

PIERO GOBETTI Editore

TORINO - Via XX Settembre, 60


Imminenti:


Incominceremo in ottobre una grande collezione di letteratura europea contemporanea. In questo campo non è più tempo di tentativi e di sforzi parziali. La cultura italiana deve essere fatta cosciente in modo critico e organico delle nuove tendenze europee di arte e di pensiero. Intorno al Baretti e alla Rivoluzione liberale devono raccogliersi tutte le serie esperienze non provinciali dei nostri giovani. A questo stesso criterio di serietà e di europeismo sono ispirate le nostre edizioni.

Le due antologie che qui sotto annunciamo non devono mancare in nessuna biblioteca. Usciranno in ottobre e si danno a prezzo ridotto a chi le prenota sin d’ora. Inaugurano una collezione che sarà unica in Italia.

CESARINO GIARDINI

Antologia dei poeti catalani

1870 - 1925

Ai prenotatori L. 12

E' la prima storia della poesia catalana contemporanea — un esempio di regionalismo moderno che può essere proposto agli italiani. I catalani oggi conducono una battaglia simile alla nostra nel campo della cultura.

C. Giardini oltre a tracciare la storia di questo risveglio catalano ha tradotto in versi con intelligenza ed ispirazione le più belle poesie di 40 poeti. Di ogni poesia sono date le notizie bibliografiche e un cenno critico con rigore scientifico. Tutto il libro è un modello di buon gusto e di modernità letteraria.

ELIO GIANTURCO

Antologia dei poeti tedeschi

1890 - 1925

Ai prenotatori L. 10

Elio Gianturco che dà in questo numero del Baretti un saggio della sua competenza di studioso della letteratura tedesca offre in questo libro un esame completo dell’ultimo trentennio poetico in Germania e traduce in versi una trentina di poeti quasi tutti sconosciuti in Italia. Questa traduzione impeccabile servirà ad accostare per la prima volta il lettore italiano a poeti come George, Rilke, ecc.

G. B. PARAVIA & C.

EDITORI - LIBRAI — TIPOGRAFI

TORINO - MILANO - FIRENZE - ROMA - NAPOLI - PALERMO

Scrittori stranieri tradotti

Recentissimo:

Il viaggio in Italia

di Wolfang von Goethe

Traduzione di Luigi di San Giusto

Parte I° L. 15

Parte II° L. 10

E’ questa per noi l’opera maggiormente interessante del grande poeta tedesco, ed è un’opera indispensabile per chi voglia conoscere il pensiero goethiano. Fu infatti in Italia che si compì la sua metamorfosi filosofica, fu da la dimora fra noi ch’Egli attinse il senso de la misura che «divenne equanime, più giusto con sè e con gli altri, più conscio di una gerarchia che regge la società e dei confini che ad ogni personalità impone la personalità degli altri...».

Alla presente traduzione sono aggiunti i «Frammenti di un Giornale di viaggio», lasciati dal Goethe; sono appunti interessanti, necessari per completare le impressioni ricevute dal Poeta nella nostra terra, che Egli tanto amò e sempre desiderò rivedere.

PIERO GOBETTI, direttore responsabile.
Soc. An. Tip. Ed. «L’ALPINA» - Cuneo