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il baretti 89

NOTE E APPUNTI ARTE E VITA MORALE Rileggendo le “Confessions „ Una duplicità intima vizia non l’animo soltanto del Rousseau, ma l’opera sua e fa delle Confessions, in tante parti mirabili, un’opera in troppe altre falsa cd arida. L’arte vuole sguardo limpido e sereno, amore alla realtà, quale essa sia, abbandono ed oblio di sè mer desimi. Troppo sovente invece le Confessions vogliono essere autoapologia, difesa contro accuse.immaginarie o reali: l’autore non può interessarsi alla realtà perchè soltanto lo interessa il suo proposito difensivo. Si rileggano le pagine sul soggiorno a Venezia: l’ambasciatore Montaigu fin dal principio non è uomo con vizi e virtù, ma il nemico di Gian Giacomo. L’antico segretario non vede in lui se non quella persona che non riconobbe i suoi meriti: il lettore vede perciò in (incile pagine non l’ambasciatore, ma il nemico, anzi nemmeno il nemico perchè alla rappresentazione del «nemico» occorrerebbero altre qualità complementari, trascurate dal Rousseau nel suo astio, apprende soltanto i sentimenti di odio e di rancore del Rousseau per quell’individuo.

Il Rousseau ignora la menzogna franca, schietta alla Cellini, che si impossessa della fantasia -e prende forma e costringe chi l’ha finta a viverla: c nemmeno si può dire presenti, come l’Alfieri, quella figura ideale, che noi ci facciamo di noi stessi e che non è in tutto conforme alla realtà, cd è tuttavia vera, perchè in lei crediamo e per lei trascuriamo la realtà che ci circonda, meschina c- insignificante rispetto a quell’ideale vissuto. Il Rousseau non dimentica quella clic è realtà per gli altri, ma entra in polemica coi suoi avversari:

se egli mente, la sua menzógna è ((nella di chi mira a giustificarsi, che non dice tutto quello che sa o che esagera coscientemente qualcosa e nasconde volontariamente qualche altra: per quanto egli paia persuaso, la sua persuasione non è mai assoluta e totale, non annulla in tutto una voce segreta, che le si oppone e questa cattiva coscienza non soltanto è immorale, ma profondamente antiartistica.

I sottintesi del Rousseau sono ripugnanti, ma, anche lasciando da parte i passi scabrosi e scorrendo i più insignificanti, ci troviamo di fronte a quella cattiva coscienza, che è il vista di origine delle Confessions.

Diderot è in prigione a Vincennes. Rien ne peindra jainaìs les angoisses que ma fit sentir le malheur de mon ami. Il Rousseau teme che debba restarvi per tutta la sua vita e scrive una lettera di supplica alla Pompadour.

J’écrivis à M.me de Pompadour pour la conjurer de le faire relacker, d’pbtenir qu’on m’enfermàl avec lui. Il Rousseau non vuole dare molta importanza al suo atto, la lettera était trop peu raison nable pour ótre efficace, ma aggiunge che dopo la sua lettera il Diderot fu trattato meglio: je ne me flotte qu’elle ait contribué aux udoucissements qu’ on mit quelque temps apris à la captività da fiauvre Diderot. Sembra negare, e tuttavia vuole lasciare il sospetto che quella lettera peu rais on■nable abbia pur avuto qualche risultato, risultato tutt’altro che insignificante, perchè, aggiunge lo scrittore, senza quegli adoucissements, il Diderot sarebbe morto. Il lettore crede che ormai il Rousseau passi ad altro e soltanto pensa che forse la vita del Diderot è dipesa da quella lettera dell’amico generoso:

ma al Rousseau la sua azione sembra troppo bella per non soffermarvisi ancora. - Au reste si ma lettre a produit peu d’effett je ne m’en s.itis pas non plus beaucoup fait fualoir, car je n’en parlai qu’à très peu de gens (c qui il colpo finale, con cui si chiude l’episodio e il libro) et jamais à Diderot lui-intime. — Qui il lettore dovrebbe riflettere: — Povero Gian Giacomo così buono e così calunniato! Si adepem per l’amico, e forse lo salva dalla disperazione e dalla morte c non se ne vanta neppure, anzi non ne fa paròla con l’amico salvalo.

E’, si vede, un dire e uh non dire: le parole sono ispirate non dal desiderio di rappresentare il vero, ma di suscitare un sospetto, e col sospetto un sentimento di ammirazione e di compassione. Vi è sotto la narrazione un sottinteso clic.vizia il libro e lo rende arido e monotono.

Ma sotto il Rousseau corrotto, vizioso, bugiardo, vive un altro Rousseau: nel povero corpo malato, vive un fanciullo, che ama e canta. A questo fanciullo dobbiamo le pagine più belle delle Confessions. Altro è l’individualismo del maniaco die fa di sè stesso il centro dell’miiveiso e sospetta di tutti e teme di essere defraudato di lina lode o ingannato, altro è quello del fanciullo, che ignora l’universo e gode di sè medesimo, dei propri pensieri e delle proprie fantasie, c àura tutto quello che lo circonda, perchè in tutto ritrova il suo animo, perchè tutto fornisce alimento alla sua fantasticheria clic è tutta la sua vita.

Riso e pianto, che non hanno una ragione determinata eppure allargano ineffabilmente l’animo; fantasie illimitate e sublimi clic ogni determinazione rende vane e meschine, questa è la vita del fanciullo, questa la grande scoperta del Rousseau. Appena egli ritorna in sè stesso e dimentica amici e nomici, ritrova quel fanciullo sempre vivo in lui e rivive i beati istanti di solitudine c le gioie e i dolori brevi ed infiniti. Qui egli è non.più costretto a mentire: la bellezza delle sue pagine sorge dalla loro veracità, chè quel fanciullo è ia sostanza profonda del suo essere, l’ispiratore delle sue concezioni morali, religiose, artistiche.

Vita fanciullesca è vita libera da ogni vincolo, gioiosa della propria libertà, e sembra rinnovarsi ogni qualvolta noi godiamo della nostra solitudine, dei nostri ricordi, delle nostre fantasticherie. Portate un fanciullo in una società di uomini maturi regolata da leggi e da convenzioni, in cui ognuno per essere sè stesso deve rinunciare e limitarsi e attendere a un determinato lavoro, ed ecco clic tutta quella ricchezza di sentimenti diverrà inutile c pericolosa cd egli si sentirà smarrito c apparirà ridicolo o sciocco. Così gli intensi sentimenti del fanciullo roussoiano si rifiutano ad ogni determinazione: il Rousseau saprà dirvi della gioia del fantasticare, e scriverà la ■enfatica e retorica Nouvelle ilélo’ise, quando vorrà dar fórma alle sue fantasie, dirà, come nessun altro ha saputo dire, rinnovando il mito del paradiso perduto, la sorpresa e la tristezza del fanciullo clic, punito ingiustamente, scopre l’esistenza del male e non ritrova più nelle cose die gli erano care, l’antica gioia, o narrerà del pianto convulso nella camera della cortigiana veneziana, e diverrà, per lo più, falso e astratto quando vorrà dar regole di morale e di educazione: nè parliamo ora della politica, clic, per sua natura, sembra essere agli antipodi della personalità roussoiatia.

Chi ha parlato di panteismo a proposito dell’atiicre del Rousseau per la natura? Nessuna dottrina può costringere questo senso primordiale della vita, tutta gioia o tutto dolore, libera da ogni costrizione esteriore ed interiore.

La natura è l’ambiente di questa libertà fanciullesca, che più non si trova ove sia necessaria la riflessione e il ritegno. - Jamais je n’ai taut pansé, tant cxìsté, tu n! vi cu, tant eie moi, si je ose ninsi dire qui dans ccux (i viaggi) que fai jail seni et à pìed. La vite de la campagne, la succession des aspects agreables, le grand aìr, le grand appetii, la bonne sauté que je gagne en marciumi, la libertà du cabaret, l’eloignement de tout ce qui me fait sentir ma dependence, de tout ce qui me cappelle à ma situation, tout cela degagé mon àme, me donne tine plus grande audace de pensee, me jelle en quelque sorte dans Vini mensile des élres pour les combiners les choisir me les appropriar a mon gré sails gene et sans cf diri-li. Je dispose en maitre de la nature enfiare....

La natura ha nel Rousseau una freschezza e una castità giovanile: i tratti più semplici e più comuni ’acquistano lo stupore di una prima apparizione. Quanti usignoli nella letteratura! Quanti «pianti soavi»! Le note degli usignoli del Rousseau non sono «soavi e scorte», eppure risuonnnò indimenticabili nell’animo nostro. - Je me concitai voluptueusemenl sur la tabletie d’une espèce de niche ou de jaussé porle enfoncée dans un mur de terrasse; le del de mon Ut était forine par les tétes des arbres; un rossignol était firéciscment au dessus de moi: je m’endormis à son chant; mon sommeil fut doux, mon réveil le fui davanlage. - E l’usignolo ritrovato nella seconda primavera delle Charmettcs? - La jote avec laquelle je vis les premiers bourgeons est inexprirnable. Revolt le printenips était pour moi ressusciter en paradis. A peine les neiges commenfaient à fornire que nous qiiittàines noire cachet, el nous fumes assez tot aux Cliarmeltes pour y avoir les prémiccs dii tossiglieli.

- E quello dcll’Ermitage? - Qttoiqu’ il flit froid et qu’il y cut. ménte encore de la neige, le lene c’ommcnqaìt à ve gè ter: onvoyait des violeltes et des primevcres, Ics bourgeons des arbres commcnfaient à poìndre, et la mal ménte de mon arrivée fut marquee par le premier chant du rossignol qui se fit entendre presque à ma fenétre, dans un bois qui toucliqit la maison. Après un long sommeil, outjliant à mon rcveil ma trasplanlation, je me croyais encore dans la rue de Crenelle, quand rato, si sente chiamato a tradurre in nobili forme il sentimento comune. Non medita, non critica nè fa suo il sentimento altrui, ma lo traduce in forine già consacrate dalla tradizione: la sua cura non è dedicata alle cose, ma alle parole, a questo esercizio di traduzione.

Egli stesso sente quanto più importanti siano i fatti di tutte le sue parole.

Ma qual parlar sì belle opre pareggia?

Neppure il poeta crede nella poesia sua, la quale, per vero, non è veramente sua, ma traduce un pensiero comune, il pensiero comune ’al popolo di Milano in quei giorni di aprile, in un linguaggio altrettanto comune, il linguaggio del letterato italiano, improntato a un generico petrarchismo, non senza qualche spunto di enfasi mondana.

Fili che il ver fu delitto, e la Menzogna Corse gridando, minacciosa il ciglio:

«Io son sola che parlo, io sono il vero», Tacque il mio verso, e non mi fu vergogna Non fu vergogna anzi gentil consiglio; Chè non è sola lede esser sincero, Nè rischio è bello senza nobil fine.

Or che il superbo morso Ad onesta parola è tolto alfine, Ogni compresso affetto al labbro è corso; Or s’udrà ciò che, sotto il giogo antico.

Sommesso dapprima esser poeta discorso Al cauto orecchio di fidato amicò.

Passano anni: il Manzoni nella sua solitudine inedita sugli avvéniménti straordinari ai quali ha assistito. La lontananza c il distacco gli fanno intendere ben diversamente quegli eventi: non ne t empie tùia critica politica, come il Foscolo nei Discorsi sulla Servitù d’Italia, chè la passione politica gli è estranea, ma una critica morale. La scomparsa di Napoleone gli fa rivedere in un punto tutta la grande epopea: e il suo silenzio durante la vita di lui gli appare ora dovuto a ben più profonde ragioni, che quelle esposte nei versi citati. - Lui folgorante in soglio vide il mio genio e tacque...

— Soltanto chi aveva serbato il silenzio davanti a Napoleone imperante e a Napoleone caduto poteva essere eletto dalla Provvidenza a esprimere il religioso sbigottimento di fronte a quella grandezza, che fa presentire la onnipotènza divina. E, anziché giudicare come nell’ode inedita la grandezza caduta, il Manzoni sospende ogni giudizio, e, anziché farsi portavoce dei sensi di una folla di uomini, di una nazione o di un partito, si fa portavoce dell’umanità tutta, Ma se non giudica Napoleone, il Manzoni sente il dovere di’ giudicare quegli altri uomini che, nei giorni passati esultarono, maledirono, imprecarono c prima che altri sè stesso che in quei giorni si unì al sentimento generale.

La grandezza superiore di Napoleone vuole il religioso silenzio che si conviene alla presenza di Dio: la’piccolezza, la debolezza degli, uomini comuni vuole essere giudicata: che sarebbe la nostra vita se noi giudicassimo di continuo negli altri noi medesimi?

Accanto all’epopea, la commedia. Il Manzoni rivede anche sè stesso e i milanési dell’aprile 1S14: si ricorda di quell’esultanza generale, di quel sottinteso che era nei discorsi di tutti: Finalmente si può parlare — , che era il sentimento più profondo, se pure quasi sempre inespresso, di tutte le facili dissertazioni politiche del giorno. Allora tutto quello gli era sembrato un sentiménto nobile e lo aveva rivestito di nobili accenti (Or che il superbo morso - Ad onesta parola è tolto alfine. - Ogni compresso effetto al labbro è corso): ora non tutto in quella gioia gli sembra puro. E quella gioia egli rivede sul volto di don Abbondio alla notizia della morte di Don Rodrigo. La debolezza clic prima sotto il nobile eloquio nascondeva la sua sostanziale comicità («Or s’udrà ciò che sotto il giogo antico, - Sommesso appena esser potea discorso - Al cauto orecchio di fidato amico»), ora svela la sira vera natura. Il silenzio di un giorno e la eloquenza di oggi appaiono effetti della medesi DANZE tout à coup ce ramage me fit tressaìllir ma colpevole debolezza. Certo Don Abbonii usignolo der.’Erm-tage sembra cantare nell’alba gelida del primo fiorire di primavera, l’eterna fanciullezza, sempre viva e simile a sè stessa nonostante il succedersi degli anni c degli eventi, e ad un tempo salutare l’avvento di un’età più giovanile, più schietta, più sana.

Nel libro, viziato da tante menzogne, scritto da un povero malato, è l’annuncio dei prossimo sorgere di spiriti fraterni, se pur più vigorosi c più integri, di Goethe, di Tolstoi, di Leopardi.

La “Fonte „ di un episodio dei Promessi Sposi Nemmeno agli spiriti solitari è sempre dato tenersi immuni dal contatto della folla: vi sono giorni in cui aneli’essi debbono rinunciare al proprio ben scaltrito giudizio, che li distingue dai loro simili, e pensare come tutti pensano, vale a dire, con generosità talvolta, ma più spésso confusamente e male. Persino Alessandro Manzoni non potè sottrarsi al fascino pericoloso di quei giorni: o almeno dobbiamo congetturarlo se leggiamo la canzono «Aprile 1814», scritta il 23 aprile 1S14, due giorni dopo la morte del Prilla, quattro giorni prima clic il commissario imperiale giungesse ili Milano a prenderne possesso in nome delle Potenze vincitrici. La poesia del Manzoni trentenne è delle meno manzoniane: sulle labbra del Manzoni sorgono spontanei i concetti che sono sulle labbra di tutti i milanesi: — Finalmente se ne sono andati! Non più tasse esose, 11011 più coscrizione! — , e con la espressione della gioia per la fine della dominazione francese, la fiducia indistinta nell’avvenire di Milano e dell’Italia, negli alleati magnanimi, che ascolteranno le preghiere dell’Italia «possenti cui par che piaccia ogni più nobil cosa» e nel governo provvisorio». •• jg t.ì e guardingo». Non però il pensiero generale egli lo esprime con le parole di tutti: lettedio che vieti meno ai doveri del suo ministero, c permette al malvagio di compiere i suoi disegni, c si rallegra per la sua morte, è ben lontano dal Manzoni clic per prudenza tace sotto Napoleone ed esulta eli poter celebrare la fine dei mali della sua patria: ma il.Manzoni ci insegna come siano semplici c in apparenza insignificanti le origini delle colpe più gravi.

E’ così facile il passo dalla debolezza alla colpa!

Col processo della cianca morale si è svolto nel Manzoni un processo artistico: il sentimento, che egli prima provav a come i suoi concittadini senza meditarlo 0 che traduceva in parole comuni, ora clic egli lo ha compreso nella sua natura e ilei suoi limiti, trova facilmente un tono giusto e manzoniano. Allora il sottinteso di tutti i discorsi egli lo aveva collocato in bella mostra nell’esordio solenne dell’ode: ora invece esso rimane animatore dcT’eloqncnza di Don Abbondio, ma si rifiuta di mostrarsi subito-nel suo vero essere. Si nasconde sotto forme ipocrite, sotto l’abito professionale: — Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente. — ; poi si espande più libero, lira non ancora formulato.

Non sembra vero a Don Abbondio di dire ad alta vece in pubblico quei pensieri che fino allora aveva rimuginato in silenzio e che aveva persili- temuto pensare. Ma filialmente la gioia erompe con piena sincerità: e il sottinteso del discorso si formula in parole precise:

— Ci ha dato 1111 gran fastidio a tutti, vedete, ché adesso lo possiamo dire. — Tanto oscure c recondite sono le fonti dello stile, che i letterati credono di conquistare con un arido cd estenuante esercizio! Ma di ben più segreti contrasti che quelli di una sterile ambizione letteraria si alimenta l’arte vera:

che sarebbe dello stile dei «Promessi Sposi»

se non si alimentasse di un decennio la critica morale esercitata dal Manzoni su sè medesimo?

Wagner il pedante.

Pigliando pretesto da recenti numeri di danza di Alexandre Sakharoff al Teatro di Torino, il Prof. Lionello Venturi ha steso brevemente sul Secolo, tempo fa, una cronistoria della danza ìicll’ultimo ventennio. La danza, vanto italiano un tempo, e ai di nostri così amorosamente studiata e rigorosamente coltivata oltralpe e oltreoceano, non «richiama alla memoria» di 1111 italiano odierno, dice il Venturi, «che un paio di gambe di donna magnificamente tornite». Mi piace questa evocazione plastica di una ben determinata forma come indice di un gusto. Difatti il pubblico italiano avrà ammirato Kalsavina. ina non lia morso in quella ch’era la polpa del Balletto Russo, le rade volte che scese in Italia. Passato proprio remoto e irrevocabilmente.

Quello che fece non dico la fortuna, ina la vita stessa del Balletto Russo fu l’incontro davvero astrale di Diaghilew, Strawinsky e Njinsky. (E impazzito questo fu gran ventura trovare un Massin da mettere al posto di quell’iiupareggiabìle).

Tutti gli altri nomi, non csclusi quelli di Cecchetti maestro principe se non unico e di Fokin, sono di astri attratti nell’orbita della gran costellazione, cometa migrante, anzi migrata ormai, disciolta ahimè!

senza ritorno.

«Poesia colle braccia e colle gambe», dice Baudelaire, quella del danzatore. Ma come ogni vera poesia solo se si subordina non dico alla legge del ritmo, ma a una necessità’superiore clic la purifica e in un certo senso la trascende.

Il segreto della perfezione di certe opere, Il Barbiere di Siviglia, poniamo, o La Sonnambula va ricercato, sta bene, nella invenzione poetica die vi si esprime senza soluzione di continuità, ma si badi clic questa perfezione è raggiunta é mantenuta mediante l’inquadramento esteriore così programmàticamente chiuso.

C’è una gerarchia che deve rigorosamente mantenersi nella esecuzione. Sì che la fantasia ora idillica ora comica è ordinata sempre, mai scapigliata o deliquescente. Si deve ancor ripetere che l’ordine è un buon conduttore della poesia?

Il Balletto Russo giunse un momento a realizzare perfettamente questa che tra i’opere d’arte è la più complessa: lo spettacolo teatrale.

Raggiunse la rappresentazione del quadro vivente, dico nel senso più letterale: la visione del poeta uè.l’atto di farsi, di prendere corpo c vivere. Fu la liberazione dal malo incantamento wagneriano. Idolatria per idolatria, a questa i bei Corpi intrccciautisi e snodantisi in giochi fantastici e artisticamente e senza paragone più pura di quell’altra clic si reggeva su così faticosi miti giustificativi che dal filosofico dovevan finire nel religioso.

Quanto ili movimento suggeriscono in una loro pittura un Botticelli, un Raffaello, un Tintoretto, quanto di plastico suggerisce la musica di un Bach, di un Bcethowen, di un Rossini, il Balletto Russo lo traspose in termini, in forme propri a sè solo, in mi mondo retto come il nostro quotidiano dalle tre dimensioni, sublimato, ma riconoscibile come il Paradiso Terrestre dai suoi primi abitatori; i quali nominaron subito gli animali e le piante e s’inchinarono adorando al Creatore. Mondo in cui legge e libertà s’identificano. Natura primigenia, gerarchica armonia, perduta, e riscoperta ogni volta che il fiat si ripete attraverso la fatica divinatoria dell’artista. Subordinazione di ogni individuo, di ogni elemento a 1111 ordine che: lo trascende e regola.

A questo è giunto il Balletto Russo. Basti citare Petrouchka, le Spectre de la Rose, le Sacre du Printemps. In questi balletti il danzatore dimenticava di chiamarsi Njinsky: non era che materia plastica obbediente all’impulso di una particolare funzione, e in questo limite l’invenzione individuale aveva libero gioco. Le membra del suo corpo concorrevano all’opera generale non altrimenti della massa del corpo di ballo. Ogni organo perfettamente addestrato a servire all’intero organismo. Sì che poi Njinsky e Karsavina, soli sulla scena bastavano a popolarle e indimenticabilmente.

Era veramente lo spettro corporeo di una rosa quello che il sogno della fanciulla evocava; polputo bolide carnicino eliti terminava la sua traiettoria, spiccata chissà di dove, traversando di volo la impannata della finestra e posandosi ai piedi della dormiente.

Al signor Alessandro Sakaroff non si può negare il dono del ritmo: si rammentano di lui certo irrigidirsi e allenarsi delle membra nel seguire la sua musica, la felina elasticità di certi abbandoni rotti a mezzo, certi passi così p,recisamente serrati controtempo in una misura come di chi si contraddica per gioco.

Una certa eleganza preziosa gli tien luogo di prestanza fisica. Gli manca il dono della mimica, cioè il dono dell’invenzione, ch’è l’essenziale specie per chi come lui per sè solo compone le sue figurazioni e le vuol esprimere.

Dirci clic gli manca addirittura l’intelligenza, in quanto utilizzazione dei suoi mezzi, e loro massimo rendimento. Più ancor clic ai gusti del pubblico, è ai suoi stessi che indulge.

Della musica non gl’importa: un ritmo soltanto gli ci vuole, ben scandito, sul quale scivolare (il Capriccio di circo è una delle sue migliori trovate) e snodare, nel tempo più rigoroso, le membra in poche e appena variate mosso, facendo valere le vesti onde si adorna, sontuose e delicate c molli e pesanti e flessuose.

Non si esce dall’ambito della illustra zione da salotto mondano: non ricerca, ma ricercatezza; ci vediamo spiegato Un virtuosiiio, non più nuovo, se pur squisito nella celta dei colori. Rammento nella cosiddetta Visione del 400 il modo con cui sotto alla ricca veste di velluto verde a ricami d’oro, appare