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Pagina:Il Baretti - Anno III, n. 5, Torino, 1926.djvu/4

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tratto tratto un piede stretto in una guaina pur d’orq: ’palpita, si contrae, si distende, pare un pesce allevato per il banchetto di un gran Papa del Rinascimento, che ammicchi di tra le fitte alghe di una vasca.

Più che altro c’è del pavoneggiamento nella grazia di Sakharoff: animale gemmato e miniato che si esibisce. Se seguitassi finirei col parlare del suo cattivo gusto.

Ma ho da dichiarare di non aver cercato qui di menomamente abbozzare un parallelo?

Soltanto, il titolo di danzatore non si riconosce che a un nato sotto il segno di Apollo.

Oreste.

NOTE D’ARTE MODERNA Boris Grigorief.

L’arte del Grigorieff, pittore russo e internazionale, ha le sue radici in un’aerea sensualità primitiva, che si riallaccia alle icone bizantine e all’antica pittura popolare russa. Questa materia, non più istintiva e irriilessa, è stata da lui assunta negli schemi dell’arte contemporanea, tra cui Sono riconoscibili, oltre gli apporti cézanniani e cubisti, quelli del moderno espressionismo tedesco. Conoscevamo di questo cubista disegni e riproduzioni, dove, se ci attirava la febbrile scioltezza del segno e l’acuta attenzione psicologica portata sui soggetti, ci disturbava l’eccessiva smania di caratterizzare e di stilizzare le forme, conducendo in tal modo l’espressione a significati troppo sostenuti e precisi. Del resto questa riserva toccherebbe, per quanto ne conosciamo, gran parte dell’arte moderna russa e tedesca, in cui sembra tuttora che l’interesse plastico venga sopraffatto spesso da preoccupazioni simboliche da un lato, e troppo realistiche e incisive dall’altro: atteggiamenti che, pur non mancando di tradizioni nei paesi nordici, si risolvono entrambi in forme di rettorica affrettata e truculenta, quando non danno luogo, nella migliore ipotesi, a una pittura scorporata e puramente prosastica.e illustrativa.

Ora assistiamo a un rassodarsi delle migliori qualità del Grigorieff, attraverso risultati più concreti e calmi, ottenuti palesemente con un ritorno alle fonti più schiette della sua ispirazione plastica, e colla rinuncia a certe eccessive stilizzazioni che rappresentano sempre il maggior pericolo a cui vada esposto questo artista.

Si notino-i toni zingosi del cuscino su cui sta accoccolata la piccola «Modella», dalle guancie accese da un rosso che par vernice brillante sopra legno. O le piatte tinte cineree dei Volti della Russia, che, compite entro contorni semplificati e geometrici, ricordano la materia pòvera e gessosa di certe insegne di villaggio. Si vedrà come il Grigorieff insista sopra gli aspetti d’una realtà impoverita e brutale, dove gli squilli del colore e l’incisività del segno, in luogo di tendere a qualche armoniosa composizione, od anche solo ad avventure decorative, come in tanta parte dell’arte contemporanea, sembra si limitino.alla semplice realizzazione d’un tono fondamentale fatto di sensualità triste e di, scoperto interesse psicologico. Il Grigorieff ci appare aver qui sottomessa la sua bravura un po’ impetuosa e facile a un gusto di schemi primitivi che ci ricordano la tanto discussa n pittura popolare». In realtà, la pittura popolare rappresenta, almeno idealmente, un primo grado oltre il polverio e l’effusione impressionista, un primo tentativo di stile e di limitazione formale.

Ciò spiega il fatto che, dopo l’impressionismo, tanti artisti si sentirono tratti a ricercare le fonti dell’ispirazione nelle forme più infantili e imprecise dell’espressione plastica.

Nel «Vecchio Porto» e nelle tre Vedute di Pont-Aven notiamo questa forinola «popolare»

nel suo stadio più semplice. Tinte violente, egualmente compite entro rozzi contorni senza trapassi e sfumature, compiono un’armonia di accostamenti semplici in cui la vivacità stessa delle zone del quadro di per sè prese si attutisce nel povero sfoggio dell’insieme. Ma in queste opere non sono ravvisabili che risultati illustrativi, fin troppo evidenti. Più vicini alle intenzioni del pittore, se non immuni del tutto da elementi fiamminghi italiani quattrocenteschi sono il quadro «Miseria» e alcuni ritratti, dove si riscontra, come in quello della Marchesa, una costruzione di gusto semplice e barbaro, nudo scheletro a sostenere le zone del colore.

E molti paesaggi di Bretagna, pianure verdechiaro fermate sotto cieli pesi e turchini come nell’illuminazione d’un lampo imprpvviso, piantagioni di cavoli azzurrastri, case campestri dai comignoli alti accatastate fra le matasse frondose dei meli, tronchi di piante atrocemente nudi sotto un sole povero.

Nei- disegni, mancando il colore a collegare e a saldare la composizione, che negli stessi quadri si ’basa quasi unicamente sull’intarsio delle tinte, senza trapassi chiaroscurali, la visione si scorpora, e il gusto si rifugia nella preziosità della linea,, che si sviluppa sul foglio bianco affrettata e capricciosa a conchiudere i labili contorni delle figure, disposte in modo che si direbbe illustrativo. Certi animali al pascolo, appena accennati da lievi tratti di matita ritrovano nella loro scarna essenzialità qualcosa dello spirito schematico dei primitivi, ma dissolto da una nervosa e delicata mièvrerie.

Contemplando alcune di queste tele, dove l’acre sensazione d’una realtà intristita giunge a comporsi in ima nuda luce intellettuale, arriviamo fino a dimenticare le formole conosciute e inevitàbili sulle quali il pittore ha costruito. Linee e colori ci conducono, seppure attraverso divaganti ambiguità, a un loro significato riposto di smarrita e barbara malinconia, dove le forme semplificate non serbano più che una inquieta e fuggevole grazia, i volti delle figure si scompongono in piani aridi e violenti, una natura acerba è impedita di fiorire.

Carlo Carrà.

Attraverso i tre stadi sinora attraversati dalla pittura di Carrà è riconoscibile una intensa volontà di crearsi un tono originale su di un terreno esausto.. La natura di questo piemontese tenace e romantico è altrettanto ingenua quanto disillusa. Come risultati concreti, nè il periodo prettamente futurista nè quello metafisico successivo rappresentano altro che accenni e indicazioni.

Carrà ha incominciato con intenzioni palingenetiche, e i quadri del periodo futurista portano le tracce delle tumultuose e inconsistenti teoriche che sommossero a quei tempi, cicloni inoffensivi, l’aria stagnante dell’arte nazionale.

In Carrà più che in altri si manifestavano con schiettezza le inclinazioni realistiche ch’eran l’unico movente concreto delle esperienze che si chiamarono futurismo. L’anelito a distruggere il distruggibile e a confondere il confondibile, che perfino sulle tele si concretava materialmente in polverose catastrofi di forme e di colori, era veduto allora come l’unico mezzo di aderire ad una realtà contemporanea, l’unico modo, per noi italiani, di sottrarci per Sempre agli schemi e alle architetture del passato. Nella «Carrozza di notte» e nella «Donna al balcone» oggi non resta più che qualche delicatezza di chiaroscuro.

Altrettanto può dirsi della successiva fase «metafisica» dell’opera di Carrà. Anche qui è opportuno distinguere l’apparato e la messa in scena dagli effettivi risultati di tono e colore smarriti entro forme polemiche ed eccessive.

Ma qui aveva inizio quello che chiameremo il romanticismo di Carrà. A questi oggetti incredibili isolati in un’aria sorda e riprodotti colla penosa e tentennante cura dei primitivi sotto cieli sfumanti dal violaceo cupo al verde, bisognava attribuire il valore di cifre ermetiche e suggestive, a cui le stesse volute incertezze del dipinto dovevano apportare come un sottile incanto, quasi di una delicata difficoltà, a quelle idee nostalgiche e favolose, di materializzarsi sulla tela. Si trattava anche qui di semplici accenni, di forme intelligibili soltanto «in chiave», e vani erano i richiami giotteschi di certi toni calcinosi, e gl’ingenui accostamenti di alcuni colori semplici e preziosi sulla tela bianca a dare una quasiasi parvenza di verità plastica a queste geometriche astrazioni.

Ma la stessa romantica inquietudine che evadeva sempre verso forme simboliche, rappresentanti solo una individuazione provvisoria e ineffettuale del sentimento dell’artista, doveva a poco a poco raccogliersi e ritrovare un terreno solido, Questi paesi che costituiscono la terza maniera del nostro pittore hanno veramente il valore di una lenta a guardinga presa di possesso. Queste terre liscie e pesanti, su cui s’aprono densi cieli ove una luce perfettamente dissolta si fa morbida e sommessa, queste masse di verdi smorti ove il rosso di qualche tetto mette qua e là come un tocco di delicato trasoguamento, ci appaiono visti entro una nostalgia intellettiva che ha finalmente trovato di che non smarrirsi. Una piccola casa sotto una collina brulla, presso un’acqua ferma, ha l’incanto suggestivo e raccolto di certe immagini di ricordo, incanto che pur non abbandona mai la materia plastica ove si è concretato. La lenta e faticosa aderenza dei toni, la costruzione schematica delle masse che ci riporta al più valido insegnamento di Cézanne, contribuiscono all’elaborazione di una realtà limitata ma pensosa e priva di facili richiami caratteristici, solidamente costruita eppur vivente solo in una melanconica atmosfera interiore.

Giorgio De Chirico.

Chiamano letterario questo pittore, ma è evidente che tale termine non deve prendersi nell’accezione con cui si chiamarmi letterari pittori Moreau, Bòcklin, Puvis de Chavannes. In De Chirico la sparsila degli elementi ripresi dalla pittura antica si riorganizza solo in una ricerca di curiosi significati anacronistici, che restano forzatamente frammentari e illusivi.

Mi sembra di dover aggiungere che questi elementi, raccolti dunque solo a scopo di ottenerne delicate e favolose suggestioni plastiche, piuttosto che alle grandi opere della pittura passata, si ricolleghino in relitti deteriori di questa.

Quattrocento e seicento, vecchie stampe dimenticate e tele dell’ultimo ordine, litografie d’osteria, sfondi scenici ’bòckliniani ecc. eco.

Tutte queste cose han contribuito a formare una strana pittura, in cui, è impossibile negarlo, gli elementi predetti si trovano curiosamente rivissuti, se non fusi.

In quanto alla cosiddetta pittura metafisica, ciò che non vi è di ciarlatanesco o rettorico si riduce a una sorta d’inconscia e confusa nostalgia di certe forme e di certi echi del passato.

Tutti conosciamo la vaga suggestione del ricordo di letture e visioni infantili, il misterioso senso d’una statua corrosa in una pigra piazza estiva; l’inesprimibile tragicità promanante da pochi oggetti isolati in una stanza morta. A evocare d’un tratto il nome di Ettore o di Andromaca, di Achille o di Diomede, è facile che si ricada nel primitivo senso avutone da letture, e da quadri conosciuti nell’infanzia, e che tali figure, nel subitaneo socchiudersi della memoria, ci riappaiano cariche dei favolosi e incerti significati, con cui prima si presentano alla nostra immaginazione fanciulla, in un’atmosfera insieme paurosa e familiare, al di là d’ogni storica o leggendaria evidenza.

Il pericolo continuo di questa pittura, che pure ha prodotto, con qualcosa di Carrà e di questo De Chirico, alcune opere abbastanza significative, è quello di mancar d’adesione al proprio oggetto, e di non valere più per se stessa, ma solo in cifra, in funzione cioè di una misteriosa «idea» che linee e colori dovrebbero suggerire. Ora l’equivocità di quest’arte non consiste in questo suggerimento, poiché è chiaro che un’opera di pittura è un fatto spirituale, e non si esaurisce nelle linee e nei colori fisicamente intesi. Ma nella mancanza di necessità del suggerimento stesso. In altre parole, si tratta di un’arte puramente allusiva, la cui concretezza plastica non esiste che in ragione di ciò ch’essa vuole indicare senza esprimere.

Linee e colori possono dirci altra cosa di quella che vogliono dirci. L’.idea trascende sempre la materia, che tenta invano adeguarvisi organizzando spersi elementi di pittura classica, che dovrebbero unicamente trasportare sulla tela un indefinito senso dell’immortale nostalgia della loro origine.

Per venire poi all’espressione effettiva di tali intellettualistiche composizioni, è opportuno notare la singolare forza del disegno, che invano tenta incorporarsi nei coloriti rudi e terrosi, quasi di materia dissecata e decomposta. Ma in alcune nature morte, ad esempio in quella rappresentante della pescagione tratta a riva, sotto uno sfondo di marina fantastica, o in quella à&W anguilla, certi bianchi e neri rudemente segnati, e certi verdi cupi ed ocre velenose non sono privi di significazioni. Notiamo pure l’astratta fissità degli autoritratti, fissità che, in questa pittura disumana, tien luogo d’espressione psicologica. Sergio Solmi.

Rovetta Nel salotto di sua madre, la Rovettina, Gerolamo Rovetta non potè fare che gli studi di Telemaco. E Penelope era ordinariotta, rude, piuttosto vuota di vita interiore.

La figura di questo Telemaco che aveva succhiato con la sete dell’età l’amore del lusso e del salotto aristocratico, che sentiva la segreta ambizione delVhigh life di Milano; dominato dagli strozzini, torbido e malevolo seguace del credo plutocratico, miope, arido; diventato nemico irreconciliabile e cinico di sua madre per la repugnante storia di una eredità — è più viva negli aneddoti e nelle testimonianze di costumi che nei Disonesti o nel Tenente dei Lancieri.

Un libro di appunti e ricordi come G. Rovetta e la sua famigliai materna di E. Bevilacqua (Firenze, L.

Monnier; 1925) vale a ricostruire questo mondo meglio di un saggio apologetico di Renato Simoni.

Bevilacqua ci mostra Rovetta giovane che vive tra un «vario assortimento di leggerezze umane, di piccole borie, di maldicenze e ipocrisie, di infiniti egoismi, con qualche venatura diafana di bontà». Si fa «poeta» con la superficialità di un filodrammatico e di un corteggiatore d’attrici. Scrivendo per calcolo e per una cc frolla borghesia arricchita, ambiziosa, politicante, sfruttatrice del patrimonio, avito, avida di piaceri» è più improvvisatore che artista, trito, facilone, senza sobrietà e senza stile.

Rovetta fu un precursore. La «letteratura milanese» erotica, mondana, prosàica, cinica, industrializzata nacque con lui. Egli si arricchì coi libri. Vitagliano e Mondadori sarebbero stati oggi i suoi felici impresari. Raffaele Calzini, Gino Rocca, Salvator Gotta infatti sono i minuscoli epigoni schiacciati dal confronto di un Rovetta più scaltrito e internazionale qual’è Guido da Verona.

Rovetta meritava di vivere in un’epoca più dinamica.

Sarebbe stato un conquistatore, il re della reclame.

Scrive De Amicis che «fu il Rovetta a ideare cu egli annunzi, chiamati striscioni, formati da enormi liste di carta impressa di caratteri cubitali, che si attaccano per traverso ai muri c alle vetrine, come tracolle gigantesche, divenuti ora comunissimi». Questa latina genialità imperiale fu sacrificata per la tristezza dei tempi democratici.

Panai! Istrati Per R. Rollanti Istrati è un Corchi dei paesi balcanici.

Infatti è un narratore nato, un orientale vagabondo, un meridionale acceso. Dopo vent’anni di vita errante, di avventure straordinarie Rolland lo ha indotto a farsi scrittore. Ne risulta un’arte incomposta, internazionale, esotica, che spiace agli stilisti, e vorrebbe essere sopratutto un documento rivoluzionario, di un’umanità non imprigionata nelle tradizioni.

L’apparizione di artisti suggestivi come Istrati è una battaglia necessaria in ogni secolo, come protesta romantica contro gli accademici del protezionismo provinciale e contro le corporazioni degli scrittori professionisti.

Noi lo applaudiamo come combattente anche quando pon lo lodiamo per il suo gusto.

Dei tre libri editi dal Rieder il Cecchini ha tradotto per La Voce (Firenze, 1925) il primo, Kyra Kijmlina, che è il più semplice e pacato. «Adriano Zograffi — il protagonista del ciclo — non è, per il momento, che un giovane uomo che ama l’oriente. E un autodidatta che trova la Sorbona dove può. Egli vive, sogna, desidera molte cose. Più tardi oserà dire che molte cose sono mal fatte dagli uomini e dal creatore Egli si permetterà un’altra audacia, quella d’amare, e d’essere, sempre in tutti i paesi, l’amico di tutti gli uomini che hanno cuore».

PILLOLE Soiaria. Raccolta cortese, tuttoché fiorentina, di prosette rondesche. La fa «un gruppo». a Senza un programma preciso». Dice l’annunzio: «Ci siamo avvistati nei caffè». «Per noi Dostoyewski è un grande scrittore». E scrivono così Dostoyewski come Ojetti, non sapendo di g aspirati e di g gutturali, scrive Sollohub. Si dice che a Firenze i diretti non passino:

Soiaria vi porta ora la Ronda. Proteste di Ferrieri:

la Ronda sono io. E quei di Soiaria, duri: «La lentezza con cui Vincenzo Cardarelli rivela a sè e agli altri le proprie opere ha qualcosa di necessario e di fatale». Sotto Brngaglia! Per altro in copertina c’è questo cartellone-réclame:

«Tutti gli studiosi, tutti coloro che sono sottoposti ad un intenso lavoro intellettuale hanno la necessità di tenere il proprio organismo in condizioni dì poter funzionare regolarmente.

Una cura piacevole, la migliore fra tutte le medicine è rappresentata dal FERMENTO PURO DELL’UVA».

L’Italiano. Una rivista fascista (Bolognese) che non ripete sciocchezzuole alla Bottai. E’ vero che continua a giurare sul vulcano spento Soffici, ed ospita le insigni pacchianerie di Pellizzi e di Pavolini, ma si raccomanda per la spregiudicatezza di Maccari e per gli sfottetti di Longanesi. Per esempio: Ada Negri, la Enrica Ferri della letteratura. Bisogna far in maniera che Nino Berrini si iscriva alle opposizioni per poterlo poi bastonare. Vi è anche detto Gobetti à disitaglianizzato (sic).

G. B. PARAVIA & C.

Editori-Librai-Tipografi TORINO - IWittfifiO - FIRENZE - NOJflfl - NHPOIil ■ PALERMO «BIBLIOTECA DI CLASSICI ITALIANI»

GIACOMO LEOPARDI I canti Introduzione e note di Valentino Pìccoli Ecco come la stampa ha giudicato la nostra edizione del Leopardi:

«Bene ha fatto il Paravia ad affidare la ristampa dei canti leopardiani a Valentino Piccoli, che nella bella introduzione, nella introduzione ad ogni canto e nelle nòte ricchissime, dà una giusta misura della sua informatissima coscienza di critico e della sua raffinata sensibilità di poeta. Questa è una edizione veramente critica dei canti del grande Leopardi. Il Piccoli, senza cineserie filologiche, ma con sobrietà e profondità di giudizio, riesce ad illuminare la poesia leopardiana nell’insieme e nei particolari, a penetrare l’anima del Poeta, a far comprendere e ad ammirare (anche a coloro che ammirano senza sapere perchè) le bellezze sovrane di quei canti. Da notare che il Piccoli non sorvola sui passi più oscuri, com’è comoda consuetudine dei critici; ma vaglia le diverse interpretazioni, ne indica le migliori e quando non ne trovi di persuasive, anche tra le migliori, offre i suoi commenti e le sue interpretazioni che spesso vincono quelle di Maestri insigni. Un libro che onora altamente la Biblioteca di Classici Italiani dell’editore Paravia, che sarà prezioso aiuto agli insegnanti e agli scolari, e farà molto bene, infine, a chiunque voglia accostarsi, con desiderio e volontà di a comprendere», alla poesia leopardiana».

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