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Umberto Saba poeta tata, supplice (imbecille I) parlò con lo spirito ch’egli credeva presente:

«Te ne prego, di’ il tuo nome designandone le lettere in base all’alfabeto nostro f».

Egli prevedeva tutto: aveva paura ebe lo spirito ricordasse l’alfabeto greco».

Se non ci fosse una simile reazione personale, che si palesa nelle varie vicende del racconto c ne illumina le pagine più smorte, quest’ultima — e lunghissima — opcra sarebbe un tentativo fallito. Che c’importerebbe di sapere, a traverso trentatre pagine, come fa un uomo a non smettere il vizio del fumo? Gli assiomi c le fissazioni da salutista, che son quasi il filo conduttore e i punti articolati del romanzo, non c’interessano se non in quanto sono speciali manifestazioni del carattere di Zeno: invaginano malato che crea la sua malattia per il bizzarro gusto di dare una risonanza fìsica ai paradossi.

Ma altrove la malattia, a cui sempre l’attenzione dello Schmitz si volge con straordinaria cura, ò rappresentata con vigore e riesce ad impressionare. Le fasi della pazzia, che complica una polmonite a cui la sorella di Emilio Brentani soggiace, raggiungono più che qualunque altra sua pagina una drammatica chiarezza; in una circostanza così estrema quando i fantasmi hanno superato le deboli resistenze dell’organismo e non c’è rimedio fuor che nella morte, non sarebbe davvero opportuno limitarsi c andar cauti.

Che il lato programmatico, l’intenzione, non riuscita ad esprimersi, la tesi, sia la parte caduca c inutile di questi romanzi, è giusto e evidente. ■ Si potrebbe però fare una distinzione: «Una Vita» e «Senilità» — i due romanzi scritti nel secolo scorso — ripetono l’eco di quel tempo, gl’influssi naturalistici ch’erauo allora in voga; non avendo essi una loro precisa individualità non hanno nemmeno ini|)ortanza d’arte- Pure, e anche per chi non abbia ragione di appassionarsi allo Svcvo e di andarvi a cercare le minute cose originali che sembrano degne di nota, son libri d’interessante lettura.

ha it Coscienza di Zeno» invece è un libro indigesto, clic pochi, fuorché si tratti di qualche fallace caso d’entusiasmo per il «genere» riusciranno a sopportare. C’è forse in questo libro, il meglio dello Schmitz; ma c’è anche un peggio, che gli viene d’altronde,- un ibrido modo che sa di psicologia sperimentale e di cura freudiana, innestata o combinata con un ideale letterario uso «Bouvard et Pécuchet»; adoperato per giunta da chi non sa crearsi un linguaggio pedante e quasi tecnico a forza di precisione. Se si hanno da fare i romanzi secondo le ricette, vai più insomma un’autentica ricetta maupassantiana, per quanto arida e breve, che questi ricchi pasticci dove c’entra un po’ di tutto c che vogliono essere conditi con un forte sapore di «modernità».

S’è detto che lo Svevo ha una certa predilezione per. i malati. Sarebbe, questo, un brutto segno di malattia: ma ci sono in lui anche indizi di salute, e il più sicuro di tutti è il suo modo di guardare le donne, che pare le riempia di forza e di colore proprio per la gioia dell’uomo. I suoi uomini sono o timidi 0 scettici o senili; ma le donne che gli passano accanto c si fermano un poco, sono animali fiorenti. Perciò toccano a loro certi atti d’energia, certi scatti di fierezza, come accade sempre con Dostoicschi. Ma là son donne, anche ingenuamente, fatali, un poco maliarde c maghe, angeli c demoni commisti. Qui no, son belle donne soltanto — se pure non a tutti piacevoli; la loro semplice anima è la carne. Hanno il volto largo e roseo, come la signorina Annetta; oppure, sebbene meno definito, come Angiolina. («he corse incontro, e dinanzi al colore sorprendente di quella faccia, strano colore, intonso, eguale, senza macchia, senti salirsi al petto un inno di gioia»).

Ecco una effimera Carmen: «fo vidi clic la sua faccia non era tinta, ma i colori ne erano tanto precisi, tanto azzurro il candore e tanto situile a quello delle frutta mature il rossore, che l’artificio vi era simulato alla perfezione.

1 suoi grandi occhi bruni rifrangevano una tale quantità di luce che ogni loro movimento aveva una grande importanza. Guido l’aveva fatta sedere cd essa modestamente guardava la punta del proprio ombrellino o più probabilmente il proprio stivaletto verniciato.

Quand’egli le parlò, essa levò rapidamente gli occhi e glieli rivolse sulla faccia così luminosi, che il mio povero principale ne fu proprio abbattuto. Era vestita modestamente, ma ciò non le giovava perchè ogni modestia sul suo corpo s’annullava. Solo gli stivaletti erano di lusso, e ricordavano un po’ la carta bianchissima che Velasquez metteva sotto ai piedi dei suoi modelli. Anche Velasquez, per staccare Carmen dall’nmbiente, l’avrebbe poggiata su! nero di lacca». Perdoniamogli, meglio che il «candore azzurro.» (forse esiste), alcune altre espressioni stonate che vengono a intorbidare questo bel quadro.

Come conclusione, c’è ik>co da aggiungere.

Simpatia per questo scrittore, tanto estraneo al mestiere e al successo, è facile provarla; è necessario riconoscere la dignità della sua fatica.

Se potesse ricominciare, con maggior sicurezza e indipendente dalle mode d’un giorno, troverebbe niù favore presso quei pochi che hanno voglia di leggere senz’aver paura delle nuove letture. In tal modo non riagguantcrebbe la fama; ma, meglio di un possesso cosi precario, è da augurargli la coscienza del lavoro compiuto c quel retrospettivo compiacimento che annulla i necessari dubbi e le nobili stanchezze; quando l’autore riesce a vedere l’opera propria staccata c fissa nella luce della storia.

Umiikrto Morra ni Lavriano.

Altri ha già espresso opportune considerazioni sul fatto che la poesia del Saba solo oggi ci appaia nella sua vera luce, liberata dai facili schemi in cui l’indifferenza dei primi approcci del pubblico e della critica sembrò confinarla.

Ancora una volta si è manifestato il caso di un poeta, che, ’per l’innanzi perfettamente misconosciuto, è giunto ad ottenere un riconoscimento che si palesa non fugace, e senza dubbio accortamente motivato. Il tempo, a cui nulla l’artista volle concedere, è venuto stavolta all’artista.

Oggi ci sembra, ad esempio, assolutamente ingiustificata l’impressione del Serra clic questa poesia «non uscisse dal generico». E completamente «fuori fuoco» ci si rivelano le considerazioni contenute nell’articolo che gli consacrò, nll’npparirc del primo libro, il suo concittadino Slataper, a lui del resto così lontano. Oggi, dopo gli studi del Debenedetti, del Montale, del Cecchi e del Pancrazi, non ci riesce più possibile pensare al Saba come ad un «crepuscolare», nè concepire come si l>otessc scambiare la sua vena idillica c pensosa, con sfumature di pessimistica sensualità, colla lirica incerta c sfibrata che venne di moda in Italia ni tramonto dannunziano. E la apparenza facile di questa poesia non certo facile induce oggi in stillile equivoco quéi critici clic vogliono semplicemente fare del Saba un ostinato assertore della «forma chiusa» e del «bel canto» in tempi d’eresia formale e eli liricità discorsiva, ha fedeltà di questo artista ai metri tradizionali non deve certo ricercarsi in una inattuale «resistenza ai tempi».

c tanto meno in una forma di consapevole neoclassicismo, ma nella natura intimamente occasionale e autobiografica della sua ispirazione, c in una sorta di primitiva nostalgia dei classici, tutta di primo acchito, e, diremmo, scolastica.

Tanto equivale a dire che il Saba non si è mai posto alcuno dei cosidetti «problemi formali» in cui sembra che la nostra poesia contemporanea sia costretta a dibattersi, a seconda che aspiri all’estatico platonismo di una supcriore armonia stilistica, la di cui esigenza è insita in tutta la nostra maggior tradizione, o che preferisca insistere sull’elemento sensuale c coloristico che inevitabilmente rinascerai disgregamento delle forme tradizionali e dal riavvicinarsi dell’ispirazione al primo e ancora incerto palpito della vita. Egualmente lontano da questi estremi, il Saba sembra aver accolto le forme chiuse quasi passivamente, pago di una materia verbale c ritmica appena appresa, nella raccolta adolescenza, dalla irriflessa frequentazione dei nostri classici. Ai modi del sonetto c della canzono egli più che altro adegna, senza soverchie vibrazioni o reazioni musicali, una vena delicatamente meditativa c figurativa, e, se a taluno sembrò di respirare, nei primi «Versi dell’adolescenza» e nelle «Canzonette» contenute nel presente volume, un’aura quasi metastasiana, bisogna osservare quanto i modi melici del Saba ci apnaionò meno liberi e sonori, e trattenuti sul significato fresco e accrbo degl’incisi particolari piuttosto che sfuggenti dietro la sfogata levità del verso Ad intendere la verace natura di questa aspirazione meglio giova riflettere circa l’origine triestina del Saba, che si trovò di buon’ora a dover risolvere entro una classicità tutta di maniera c di superficie le durezze de! dialetto e le contraddizioni di una cultura in margine c non certo scevra di qualche influsso germanico. Non so come, leggendo anni fa le ultime liriche de! «Canzoniere» ini venne di pensare a certe canzonette del Goethe maturo, c mi sembrò di sorprendere, nella dolcezza pacata di quelle forme del canto dalla vita elementare della giornata, come un riflesso corroso e turbato della respirante saggezza di certe ballate e favole dei «Divan». Nè a questi rilievi, clic sembreranno paradossali, si vuol dare un qualsiasi valore di giudizio, all’iufuori dell’angelo visuale da cui si circoscrivano i nostri accostamenti.

Come molte volto avviene, la particolare ispirazione del poeta si è trovata inconsapevolmente avvantaggiata dalle stesse difficoltà che agli inizi la travagliarono. E furono ancora tali difficoltà, che tutt’oggi ritroviamo, nel Saba maturo, vinte eppur presenti, clic contribuirono a formare il tono profondamente individuale che fluisce compatto dai primi sonetti del Canzoniere fino alle ultime composizioni di Figure c canti. Certo a torto si no* minarono, a proposito del Saba, Petrarca c Leopardi. E non perchè la sua Musa sin, come egli s’esprime, di poveri panni, ma perchè se riechcgginmenti vi persistono di quei grandi, essi non esorbitano, come abbiamo detto, da quell’indctcrmiiiata atmosfera di nostalgia scolastica, che apprese i primi modi del verso c della composizione dallo giovanile consuetudine coi grandi testi della nostra poesia.

Ispirazione tutta in tono minore quella del Saba, che, unicamente nascondo come musicale meditazione e dominano alla vita, assai di rado sembra tendere alle platoniche trasfigurazioni di cui la grande lirica classica ci dà esempio. Mai come per il Saba sarà efficace il detto goethinno che ogni vera poesia sia poesia d’occasione, he sue migliori raccolte (Trieste c una donna, la Serena Disperazione), trovano i loro motivi nella vita direttamente rispecchiata nella parola poetica, schiva da ogni amplificazione rettorica cd ornamentale, e senz’altro presupposto che una generica esperienzn umana. E’ stato pure osservato, dal Debenedetti, come questa poesia, in fondo schiva dal dramma e dalla narrazione, fiorisca naturalmente nei punti riposati dell’auto biografia, dove il dissidio appare, se non composto, quietato e rattcnuto, c dove solo può sorgere l’attegginmento idillico e meditativo.

In somma, la poesia del Saba è la sera del poveruomo.

quando decade l’assillante preoccupazione delle cure della giornata, e i sentimenti e i pensieri, perduta l’asprezza c la tensione colle quali nacquero, si risolvono in una labile effusione nostalgica.

Il nuovo volumetto IFigure c canti, Ed.

Treves, 1926) che raccoglie tutta l’ultima produzione del Saba, se è lontano dnll’avcrc l’importanza del libro precedente, rappresenta un ulteriore sviluppo della maniera poetica del nostro, quale già le ultime composizioni del Canzoniere lasciavano presentire. Sviluppo che si presenta ben fatale c necessario, spc* cinhncnte nelle <1 Canzonette» e nelle poesie del ciclo Cuor morituro, e che solo nella serie dei «Prigioni» ci appare insistito e sforzato, rappresentando questi, in qualche modo, un rispecchiamento critico cd esemplare di quella sorta di inconsapevole neoclassicismo che d Saba è venuto raggiungendo ultimamente, e clic è insieme il risultato di una maggior sorvcglìatczzn formale, e, nei riguardi interiori, di una tranquilla stasi contemplati-a dopo il turbamento patetico di Trieste e una donna 0 delle altre liriche di quel periodo.

Nelle Canzonette il poeta, stanco di rivelare in parole di dolente poesia le tormentate cecità del cuore, non aspira clic a far fiorire il proprio sentimento in delicate invenzioni e favole, (piasi consolato inganno alle rassegnate pene della vita, c naturale fluire della riposata compiutezza umana della maturità. Il dato passionale, che, altra volta passivamente subito, non lasciava attorno a sè che una lieve e diffusa vibrazione lirica, qui appare dissolto e come dimenticato nelle armoniose figurazioni e riflessioni. Il tranquillo ideale del poeta sembra ormai quello dell’onesto incisore, che giunge a obliare, nella faticosa gentilezza de!

lavoro, il dolente motivo che ne lo ha ispirato:

Mi sogno io qualche volta di faro antiche stampe.

E’ la felicità.

In queste canzonette, più che il melodista, ci piace appunto ritrovare il savio artefice di vecchie stampe, che, fatto ormai sospettoso degl’inganni e delle perdizioni della Natura, ne dma c ne rende familiari le lince neìl’nttenta grazia dei suoi segni:

Il ruscelletto che tra l’erbe lesto trascorro ò dolco per il solitario ina non per esso vedere farci troppo lungo rnmmino. />’amerei menilo dipìnto, e che it cuore dell’uomo ci *1 vedette E non intendiamo (pii opporci all’accorto richiamo che ha fatto il Cecchi ai madrigali tasscschi e alle sospirose canzonette del Metastasio.

Ma, come sopra si accennava, ci sembra che solo per qunlche lato secondario la vena del Saba possa avvicinarsi alla sciolta e indeterminata felicità melica di quella poesia.

Si guardi a come nel Saba l’inciso particolare appaia sempre attentamente trattenuto c delineato, e a come il suo verso, in senso di figura musicale, sembri spesso incontrare una sorta di lieve difficoltà a incorporarsi nella materia verbale, anche nelle composizioni più sfogate. Il ritmo sembra sostenere c guidare la parola più che risolverla in sè. E si noti come riesce difficile ricantarsi queste «canzonette» nel tono abitualmente voluto dal metro e dallo schema esteriore, c come il canto nc risulti più lento e affaticato. Corte clausole finali vi serbano tutta la statica ed elaborata incisività di un cul-dc-lampe. Nè inganni quanto di musicalmente indefinito e generico presentano certe espressioni locali su cui il poeta sembra insistere:

Penso indefesso cure d’amore cd il rossore d’un caro viso dolci promosse, bei |>cntimonti o casti accenti di paradiso.

Di questi apporti, che rivelano a chiare note la loro provenienza, è da ricercare l’cffcttualità nel sentimento del poeta non in quanto vi è in essi di esaurito c di appressimativo, bensì nella particolarissima inflessione con cui vengono pronunciati, c nella freschezza dei significati che sogliono adombrare.

Nello stesso modo bisogna guardare all’uso di certe ardite inversioni c forzature sintattiche, che portano all’estremo il concetto classico della» licenza poetica» c che nel nostro vogliono esser considerate come un’altro degli aspetti della schiva c complessa intimità della sua ispirazione. Queste risoluzioni, che diremmo borghesi, dei modi aulici della poesia antica in una materia tutta autobiografica e personale non sono, come potrebbero parere a prima vista, segni d’insufficienza c di cattivo gusto, bensì spesso delicati suggelli di cui solo chi lia bastevole familiarità colla poesia del Saba può cogliere l’ambigua e sottile grazia.

Mentre Fanciulle ci riportano, con maggior delimitazione degli elementi figurativi, al clima delle Canzonelle, i quindici sonetti delj’«Autobiografia» segnano il passaggio alle ultime liriche del volume, che si ricollegano alle migliori del Canzoniere. Nell’/lutobiografia è evidente il tentativo, clic ritroviamo d’altronde presente in tutta l’opera del Saba, di giungere all’altezza semplificata del canto attraverso una S|>ccic di mortificazione della forma metrica, e l’uso di fòrmule popolareggianti, che tendono a ridurre la materia di questa poesia si una sorta d’umiliato convenzione, sulla quale meglio possa innalzarsi la patetica sostenutezza del tono:

La mia infnnxln fu povera e limita di pochi amici, di qualche animale; con una ria benefica ed nmnta come la madre 1 e in deio Iddio immortale.

Ia duplice intenzione che permane in questi componimenti, c non riesce che in qualche tratto a fondersi con la poesia, induce tuttavia il lettore a un senso di insoddisfazione. Infatti il tono di tratti come il seguente risulta evidentemente solo presupposto, e lascia a secco una materia mortificata e spoglia, che non riesce ad elevarsi al canto:

Gabriele D’Amuiiixio alla Vcrsiglia vidi e conobbi: all’oolite fu assai egli cortese: nitro j>er me non foco; Liriche come «La Brama», «Primavera, d’antiquario», «Il Borgo», «La casa della nutrice» meriterebbero da sole un ampio eparticolare commento, clic tuttavia non forzerebbe di molto le linee tratteggiate in questo, breve scritto. Alcune, come «Il Borgo», sono fra le più alte clic il Saba ci abbia dato.

Pure è in esse da notarsi un nuovo c più attento senso dei valori della parola, una studiosa lentezza di procedimenti che ingigantisce le prospettive c crea alle dolenti immagini come l’eco di una seconda incantata profondità.

Qui davvero Patteggiamento dimesso, del poeta si eleva, in virtù della sua stessa umiltà, all‘altezza del gesto classico.

E sarà inutile intrattenersi ancora una volta sul valore complessivo dell’opera del Saba, la quale, •(l’indiscutibile concretezza, non farà che situarsi sempre meglio nello sviluppo della nostra recente lirica, in attesa del più vasto riconoscimento che indubbiamente seguirà da parte del pubblico. Più opportune sarebbero alcune considerazioni sulla personalità morale del poeta, i cui elementi verrebbero ad integrare le osservazioni necessariamente manchevoli fatte di sopra. Ma questo è un altro punto di vista che egualmente ci riconduce alla misteriosa unità e totalità dell’opera d’arte:

e che tuttavia è sempre saggio risolvere in ben delimitati rilievi formali, sotto la pena di cader nel generico cui induce quasi sempre la critica razionalista o contenutista. Sull’origine ebraica di! Saba, sulla natura inconsciamente biblica del suo pessimismo, sulla sua «sensualità ■< già i suoi maggiori critici ci hanno del resto egregiamente intrattenuti. E cosi sull’affettuosa passività colla quale il lato sentimentale vieti sùbito dall’artista, occupando ili tal modo senza residui la golosa intimità del suo inondo.

Giungiamo così a toccare della segreta suggestione dcllq poesia del Saba, che è dovuta, oltre che alle complessità c difficoltà della sua formazione stilistica, a quelle delja sua formazione etnica c morale. La carnalità di tanti significati di questa ispirazione, la delicata impudicizia di certe figure ha qualcosa di sottilmente esaurito e fatale, di disperatamentesopportato, in cui le distinzioni inorali si dissolvono, c le stesse riflessioni etiche e gnomiche acquistano un sapore di ambiguo c dolce scotiiririuo. /M di là della f ivola breve e colorita in cui il Saba ha racchiuso i vaglii fantasmi della sua creazione non è che stanchezza, disfacimento e morte. E la stessa saggezza e maturità intima che il poeta sembra oggi aver conseguito non ci deve ingannare, perchè ha sapore di cenere. Certo dietro le floride sembianze delle sue fanciulle non ci aspettiamo di veder apparire il romantico teschio dalle orbite vuote; ma l’acerbità del desiderio appare sperso acuita come da uno stanco presentimento, da un senso estenuatodi fatalità cosmica:

O Dall’antica carne «lell’unmo daH’inixio infìtta antica brama!

Cosi, dietro gli aspetti di questa poesia, che per tanti lati si ricollega alla nostra tradizione, e il cui tono si presenta subito così intimo e familiare, ci si svela spesso un volto di tristezza straniera ed immemorabile, che ci tocca appunto-in ragione* della sua misteriosa lontananza, c ci richiama al pensiero di una razza errante da tanti secoli sopra la terra, c alla sua nostalgia disperata di potersi un giorno fermare.

Skrc.io Solmi.

G. B. PARAVIA & C.

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Pre/.xo del voli into: L IH.— Le richieste vanno fatte o alla sede centralo di Torino via Garibaldi, 2.3, o olle filiali di Milano • Firmine"- Ronm - Napoli - Palermo.

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